SCIENZA E RICERCA

Le parole che creano la storia

Ci sono parole che marcano chiaramente un contesto o un’epoca, rimandando a concetti ben definiti anche se complessi, come Guerra fredda, Schuldfrage, o Négritude. Ci sono invece altre parole apparentemente senza rilievo che si insinuano lentamente nel lessico, ma portano lontano. Ripercorrere la storia delle parole e il loro utilizzo può quindi diventare un modo per riscrivere la storia che si legge nei manuali di scuola, e ricostruire quella delle idee e dei contesti culturali che le hanno generate.

Si scopre così che i pensieri e i discorsi che hanno infiammato gli anni della Rivoluzione francese, a cui tutto l’occidente moderno è tanto debitore, trovano la loro prima espressione linguistica nella Francia del XVI secolo, scossa da guerre di religione e sanguinosi conflitti civili. Le parole che esprimono il disagio e le azioni intraprese per combatterlo (ribellione, discordia, sedizione…) nascono in quegli anni, forgiando il vocabolario politico dei secoli a venire. Nascono negli scritti dei ribelli, che proclamano le loro idee, e negli scritti dei censori, che devono trovare il modo di marcare linguisticamente l’altrui deviazione dall’ortodossia.

Vengono alla luce in lingua volgare, in lingua franca, a volte grazie a traduzioni di testi nati in latino – come i Commentari di Jean Sleidan, una storia degli anni della Riforma, vero best-seller dell’epoca tradotto e venduto in tutta Europa – o ancora in libri scritti direttamente in lingua volgare, in questo caso in francese – come lAnti-Machiavelli di Innocent Gentillet dove si confutano una per una le affermazioni del Principe, per dimostrare che i regnanti che “si sono serviti di cattivi consiglieri e si sono lasciati governare da adulatori, ambiziosi, avari e soprattutto dagli stranieri, sono sempre caduti in disgrazia, hanno messo il loro Stato in pericolo e in rovina, e condotto i loro sudditi alla confusione e alla miseria”. E i dizionari dell’epoca confermano: rébellion compare nel dizionario di Cotgrave del 1611 ma non ancora in quello di Estienne del 1549; bisogna invece aspettare il Richelet del 1680 per trovare il termine discorde, sostantivo femminile che indica “una dea adorata dagli antichi”,  ma con la nota che “oggi significa dissenso, divisione”. E se nel 1549 licence indicava la licenza nel senso di permesso, nel 1680 significa anche disordine e sregolatezza, e se licencier  “fare cose che non si dovrebbero fare, emanciparsi, uscire da un obbligo”.

È la coincidenza degli aneliti intellettuali della cultura umanistica con i fremiti politici del tempo a portare alla scelta della lingua franca, nella doppia accezione di francese e libera, in antitesi al latino, lingua allora dominante nel discorso culturale e per secolare tradizione espressione del potere, dell’impero e della curia. Scegliere di raccontare le proprie idee religiose e politiche nella lingua madre aveva il valore dirompente di un gesto di libertà e definizione della propria identità, mettendo in crisi l’apparente unità del potere ecclesiastico o imperiale. Non è un caso quindi che a ospitare le prime occorrenze delle parole di ribellione, eresia e devianza siano i principali scritti storici del periodo della riforma, da Goulart a Aubigné, insieme alle memorie e alle lettere dei grandi del regno, tutti scritti in lingua volgare, corpus ideale di testi, sforzo complessivo di scrittura (o riscrittura) della propria storia senza passare per la lingua e lo sguardo degli altri, esattamente come succederà secoli dopo alle culture che lotteranno per liberarsi dal giogo della colonizzazione culturale occidentale.

Dopo lunghi periodi in cui il dibattito intellettuale si svolgeva quasi esclusivamente in latino, mentre le rivolte “in volgare” venivano solo dal popolo affamato, la lingua franca diventa l’approdo dei ragionamenti sulla libertà di religione, di pensiero e di parola, e la manifestazione verbale dell’autonomia dell’individuo. Con la consapevolezza che quando l’idea diventa parola non può che preludere all’azione.

Cristina Gottardi

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