SOCIETÀ

Senza crescita pensioni da fame

Quali sono le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione per il nostro paese e in generale per le società che lo stanno fronteggiando, Europa e Giappone in testa? Di questo si occupa il progetto di ricerca Firb (“Futuro in Ricerca” del Miur) Le conseguenze economiche dell'invecchiamento della popolazione, finanziato nel 2008 e i cui primi risultati sono stati illustrati in un convegno a Padova (cliccando il link si accede anche ai lavori presentati).

Uno dei problemi principali – non il solo – è costituito dai sistemi pensionistici, dal momento in cui è sempre più evidente lo squilibrio tra il numero dei pensionati e quello dei lavoratori. Ci vuole poco a fare due conti: secondo l’Istat nel 2012 sono stati censiti in Italia 16,6 milioni di pensionati, 75.000 in più rispetto all’anno prima. Il totale degli assegni erogati ha superato i 270 miliardi di euro: il 17,28% del Pil (+0,45% rispetto all’anno precedente). Nessuno tra i paesi Ocse spende come noi, con un fardello non indifferente che pesa su poco più di 22 milioni di lavoratori. In qualsiasi sistema infatti gli assegni previdenziali vengono di fatto pagati dai lavoratori attivi, quindi il nodo sta nel rapporto tra il numero di questi e quello dei pensionati. Oggi per ogni lavoratore ci sono 0,8 pensionati e più di una pensione a testa da pagare, visto che diversi soggetti ne percepiscono più di una. Una situazione che, a meno di un improbabile repentino rilancio della natalità, pone il sistema nell’obbligo di farci lavorare di più e di ridurre progressivamente le pensioni, come infatti è accaduto e sta accadendo negli ultimi anni.

I lavori presentati durante il convegno si concentrano in particolare su determinati aspetti delle riforme pensionistiche italiane negli ultimi anni, nella prospettiva di valutarne gli effetti in vista dei prossimi interventi. “In Italia manca una tradizione nella valutazione delle riforme, con un’analisi sia precedente che successiva degli effetti – spiega Mario Padula, economista a Ca’ Foscari e membro del team di ricercatori del progetto –. Bisogna invece considerare che riforme importanti come quelle previdenziali incidono non solo su risparmi, consumi e ricchezza, ma anche su altri aspetti non meno importanti della vita della società”.

Un esempio riguarda le scelte sulla fertilità: da uno studio risulta infatti che, ritardando l’età di uscita dal mondo del lavoro, si rischia di abbassare la fertilità della generazione successiva: “Le giovani famiglie contano infatti sempre di più sulla disponibilità dei nonni, economica e personale, per sopperire alle carenze dello stato sociale. In caso contrario la decisione di avere uno o più figli viene rimandata, come ci dicono i dati Istat e le interviste a campione”. Se però le riforme riducono la natalità, si aggrava ancora di più lo sbilancio del sistema: “L’unica possibilità a questo riguardo è quella di contrastare questi effetti indesiderati, ad esempio con facilitazioni fiscali e servizi per le famiglie”.

Molte delle analisi presentate si riferiscono al processo partito nel 1995 con la riforma Dini, che ha comportato il tendenziale passaggio in Italia dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziando un percorso che, al ritmo di quasi una riforma all’anno, non si è ancora concluso. “Molto probabilmente Bisognerà ad esempio mettere mano ai parametri che oggi vengono usati per calcolare la pensione in base ai contributi versati” continua Padula. Con la riforma Fornero questi coefficienti sono stati definitivamente agganciati in maniera automatica all’aspettativa media di vita: cosa che ha contribuito a mettere in stabilità il sistema, ma allo stesso tempo ha lasciato però spazio ad alcuni problemi.

Il primo è legato al valore delle pensioni future, che con un sistema totalmente contributivo sarà inevitabilmente molto più basso. Secondo l’ultimo rapporto della Ragioneria Generale dello Stato ad esempio un lavoratore dipendente del settore privato, che nel 2010 avrebbe ottenuto una pensione pari al 74,1% dell’ultima retribuzione, nel 2060 vedrà ridotta tale percentuale al 64,2%, mentre un lavoratore autonomo passerebbe addirittura dal 73% al 51,8%. In futuro però queste proiezioni potrebbero essere ritoccate addirittura al ribasso: “I contributi versati vengono infatti  rivalutati ogni anno con un tasso collegato alla crescita del Pil. Da 20 anni però l’economia italiana non cresce, e negli ultimi tempi il reddito è addirittura diminuito: se il quadro economico non migliora possiamo solo aspettarci pensioni molto basse”. Come si potrebbe intervenire al riguardo dal punto di vista legislativo? “Ad esempio prevedendo un limite minimo al tasso di rivalutazione, oppure considerando la crescita del Pil su una media di cinque anni anziché di uno”.

Le proiezioni valgono ovviamente a parità di contributi versati: oggi però la crisi blocca di fatto anche la crescita dei salari e le progressioni di carriera. I contributi però, e quindi anche le pensioni, crescono solo se cresce la retribuzione annua. E soprattutto se si lavora. Se il lavoro non c’è, il sistema rischia l’impasse: in particolare per i giovani, che oggi iniziano a contribuire a un’età sempre più avanzata, e inoltre hanno carriere molto più discontinue rispetto ai loro genitori.  Il problema però, tornando alle pensioni, è soprattutto una mentalità che va cambiata, acquisendo una maggiore consapevolezza in ogni fascia di popolazione. “Sarebbe bene in linea di principio innanzitutto che ognuno avesse più informazioni sul proprio conto pensionistico – conclude Padula –. Bisognerebbe sapere quanto si è contribuito e quale potrà essere il proprio assegno, a seconda dei vari scenari prospettati, magari con una comunicazione annuale. Purtroppo sul campo dell’informazione non si è ancora fatto quasi nulla”.

Daniele Mont D’Arpizio

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