SCIENZA E RICERCA

Trattato di non proliferazione: il ruolo degli Stati Uniti

I timori per la diffusione di armi di distruzione  di massa sono stati di recente, e sono tutt’ora, occasione  per  misure sanzionatorie, e pressioni a livello diplomatico ed economico, nei confronti di Paesi ritenuti "a rischio" di proliferazione come la Corea del Nord e l’Iran. Nel caso dell'Iraq, peraltro, tali timori - rivelatisi poi infondati -  furono addirittura pretesto per un intervento armato, condotto senza autorizzazione delle Nazioni Unite.

Il tema delle “armi di distruzione di massa”, in particolare armi nucleari, è stato usato, negli ultimi dieci anni, per giustificare le forti pressioni diplomatiche ed economiche contro alcuni Stati (Corea del Nord, Iraq e ora Iran), pressioni che nel caso dell’Iraq si sono tradotte nell’invasione del 2003, a seguito della quale non furono trovate tracce di ordigni atomici.

Le prospettive di pace e di un futuro disarmo nucleare, quindi, sarebbero minacciate da alcuni Stati che mirano a costruirsi un arsenale atomico in violazione del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). Tuttavia, il diritto internazionale registra anche altre situazioni di non adeguata conformità allo stesso Trattato, situazioni meno clamorose, ma che contribuiscono anch’esse a rendere incerte quelle prospettive.

Il TNP, concluso nel 1968, non è ancora in effetti un vero accordo sul disarmo. Al contrario, esso preserva intatta, per alcuni Stati, la possibilità di possedere e sviluppare un arsenale nucleare, stabilendo però, per ogni altro partecipante allo stesso accordo, un divieto assoluto di fare altrettanto. Il regime così delineato fa leva, oggi come allora, sulla distinzione fra Stati militarmente nucleari e Stati non militarmente nucleari. Si tratta di distinzione che “fotografa” – per mantenerla invariata - la situazione esistente ad una data precisa: lo status privilegiato di potenza nucleare spetta solo agli Stati che al 1 gennaio 1967 avessero già “fabbricata o fatta esplodere un’arma nucleare o altro congegno nucleare esplosivo” (art. IX.3). Si tratta degli stessi Stati (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) che godono di una posizione preminente anche nell’ambito dell’ONU, quali membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Questa situazione, così gravemente sbilanciata, è all’origine del tenace rifiuto di alcuni Stati di partecipare al TNP: lndia, Pakistan ed Israele non intendono limitare le proprie opzioni di difesa, senza adeguate garanzie di parità e reciprocità. Questi Stati, più o meno apertamente, ammettono di avere armi atomiche e, benché ripetutamente invitati ad aderire al TNP, condizionano la loro eventuale ratifica alla possibilità di ottenere anch’essi lo status privilegiato di potenze nucleari. E’ una condizione, però, che tutti gli attuali partecipanti al TNP ritengono improponibile: precisando anzi che l’adesione di nuovi Stati che già abbiano, o stiano allestendo, un arsenale atomico potrà avvenire solo a seguito dell’integrale smantellamento del medesimo. Si disegna così una terza categoria di Stati: quella degli Stati militarmente nucleari estranei al TNP. Per questi, il mero possesso di armi atomiche non costituisce di per se violazione del diritto internazionale, proprio perché essi non avendo mai accettato di far parte del TNP, non hanno obblighi al riguardo.

Al contrario, gli Stati non militarmente nucleari già parti del TNP, che tuttavia tentino di dotarsi di armi nucleari commettono una violazione del Trattato e, quindi, incorrono in una responsabilità internazionale, con la possibilità di dover subire contromisure. E’ questo il caso, attualmente, di Iran e Corea del Nord nei cui confronti le Nazioni Unite hanno adottato misure economiche di embargo, per ora limitato alle forniture di materiali che potrebbero essere utilizzati per la realizzazione delle armi atomiche. Tali misure la Corea di Pyongyang non ha evitato, pur avendo addirittura esercitato il diritto di recesso dal TNP – ammesso dall’art. X – e pretendendo di essersi in tal modo liberata di ogni obbligo.

Una semplice lettura del testo del TNP rivela, peraltro, come la difficile posizione di disparità fra gli Stati contraenti non fosse destinata a durare all’infinito. L’art. VI prevede infatti che tutti gli Stati parte “si impegnino a condurre quanto prima i negoziati in buona fede su efficaci misure relative alla cessazione della corsa alle armi nucleari e al disarmo nucleare e su un Trattato di disarmo generale e completo sotto un rigoroso ed efficace controllo internazionale”.

Le trattative volute dall’art. VI, tuttavia, non si sono mai aperte. I passi ad ora più rilevanti sulla strada del disarmo sono stati realizzati, piuttosto, sulla base di iniziative bilaterali, come gli accordi fra SU e Unione Sovietica/Russia sulla riduzione delle armi nucleari strategiche (START, SORT). Queste iniziative, se vanno comunque nel senso auspicato, sono lontane però dal realizzare lo scopo dell’art VI, che richiede la conclusione di un trattato generale di disarmo: vale a dire un accordo multilaterale, di cui siano parti (anche) gli Stati non nucleari: così da dare anche a questi ultimi titolo giuridico per pretenderne l’adempimento. Inoltre, il trattato voluto dall’art. VI dovrebbe contemplare la possibilità di un effettivo controllo internazionale sull’attuazione delle misure di disarmo, possibilità che manca del tutto riguardo  all’esecuzione dei trattati bilaterali sulla riduzione degli armamenti, il cui rispetto resta – ovviamente - “affare interno” ai rapporti fra i due Stati parte.

A schiarire questo quadro complessivamente preoccupante, per l’assenza di sostanziali progressi – considerata anche la dubbia efficacia dissuasiva delle misure di embargo - potrebbe contribuire l’entrata in vigore del Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

Questo accordo multilaterale, predisposto dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul disarmo, prevede il divieto assoluto di svolgere test nucleari esplosivi e predispone un sofisticato sistema di monitoraggio e controllo, gestito a livello internazionale, idoneo a rilevare lo svolgimento di esplosioni nucleari, anche sotterranee, ovunque condotte. Tale Trattato è visto come tappa essenziale all’obiettivo della non proliferazione, poiché dovrebbe inibire ad eventuali aspiranti “attori” nucleari di svolgere i test necessari a concretare i progetti di armamento atomico. Aperto alla firma nel 1996, quando era ancora vivo l’allarme sollevato dai test francesi a Mururoa, l’accordo rappresenta altresì un’importante garanzia a tutela del rispetto dell’ambiente e della salute.

 La storia degli esperimenti nucleari, iniziati subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, narra infatti di una serie impressionante di effetti dannosi scaturiti da tali esplosioni, che furono a volte molto più potenti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Il tristemente famoso test Castle Bravo, condotto dagli Stati Uniti  nell’atollo di Bikini nel Pacifico, è forse l’esempio più drammatico, ma ve ne furono numerosi altri, con danni gravissimi per le persone (pure se in molti casi la popolazione fu evacuata) per l’ambiente e per il territorio delle piccole isole, alcune delle quali furono letteralmente sbriciolate dall’entità della deflagrazione. Nelle zone, la radioattività restò per decenni a livelli pericolosi per la salute; anche dopo più di cinquant’anni non è sicura la decontaminazione. L’esperienza di effetti tanto disastrosi portò alla conclusione, nel 1963, di un Trattato sul divieto di esperimenti nucleari nell’atmosfera, nello spazio extra-atmosferico e sott’acqua (PTBT). Tuttavia, gli esperimenti… proseguirono sotto terra.

Il CTBT finalmente vieta, invece, anche quest’ultimo tipo di test. La proibizione totale di test nucleari esplosivi è da vedersi quindi come un obiettivo essenziale per tutta l’umanità, sia ai fini del mantenimento della pace, sia per la preservazione dell’ambiente, la cui tutela – come precisa la Corte internazionale di giustizia – è dovere che tutti gli Stati, ovvero l’intera “comunità internazionale”, deve assolvere non solo nell’interesse proprio attuale, ma anche “delle generazioni future”. Tuttavia, il CTBT non è ancora potuto entrare in vigore, di modo che la proibizione non è operativa e qualunque Stato – ad oggi - potrebbe lecitamente riprendere o iniziare un programma di test nucleari esplosivi sotterranei, senza incorrere in un illecito sulla base del diritto internazionale.

Quanto manca è il numero minimo di ratifiche che lo stesso Trattato prescrive: in particolare, è indispensabile la ratifica di tutti i 44 Stati nominalmente indicati  nell’allegato 2. Mancando anche solo una fra queste, il Trattato resterà privo di effetti giuridici. E’ lo stesso che dire che ognuno dei 44 Stati dell’allegato 2 ha una sorta di potere di veto, tale che senza il suo specifico consenso tutti gli sforzi compiuti verso il bando totale degli esperimenti nucleari saranno inutili.

Le potenze nucleari parti del TNP hanno tutte firmato l’accordo e si è avuta in tempi rapidi la ratifica di Francia, Regno Unito e anche della Russia: ma manca ad oggi la ratifica di Cina e Stati Uniti. Altri Stati nucleari, compresi anch’essi nella lista dei 44, non hanno nemmeno firmato l’accordo: si tratta degli stessi che rifiutano di aderire al TNP, vale a dire India, Israele, Pakistan. Sono queste le ratifiche che ancora mancano per l’entrata in vigore del CTBT.

Quali possono essere le conseguenze giuridiche della mancata ratifica? In realtà, per quanto importanti siano gli obiettivi che un accordo internazionale mira a realizzare, la ratifica è un atto libero per gli Stati, che possono decidere di partecipare o non. Gli altri Stati e le organizzazioni internazionali possono certo invitare gli Stati riluttanti ad accettare un trattato, ma non è configurabile una possibilità di imporre giuridicamente l’adesione. La mancanza di strumenti coercitivi nel diritto internazionale non deve stupire, ove si rifletta alla condizione essenziale di sovranità e indipendenza propria agli Stati, ovvero alla loro posizione di enti che non ammettono un’autorità sovraordinata (superiorem non recognoscentes). Ne deriva che la maggior parte delle norme di diritto internazionale nasce da accordi fra Stati.

Se la ratifica di un accordo è un atto libero, nella sua omissione o nel ritardo non può ravvisarsi un illecito dal punto di vista del diritto internazionale: non ne origina, quindi, alcuna responsabilità sul piano giuridico, pure se il risultato della mancata ratifica fosse fortemente pregiudizievole per gli interessi della comunità internazionale nel suo insieme. La scelta resta libera anche per gli Stati che abbiano partecipato alla negoziazione di un trattato e ne abbiano firmato il testo: in mancanza di successiva ratifica, il trattato non produce effetto nei loro confronti.

Questa è dunque la posizione attuale degli Stati che non ratificano il CTBT, pure se – essendo compresi nella lista dei 44 - ne impediscono l’entrata in vigore. La posizione di USA e Cina risulta però, ad una più attenta analisi, parzialmente diversa: come si cercherà di dimostrare nella seconda parte di questo articolo, la differenza è direttamente connessa allo status di potenze militarmente nucleari di cui Stati Uniti e Cina godono sulla base del TNP. 

 

Alessandra Pietrobon

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