SOCIETÀ
Ne uccide più la penna che la spada. Di gran lunga
Foto: Reuters/Carlos Barria
Nell’era di Twitter, a chi importa di un libro? Nell’era di Facebook c’è ancora qualcuno che legge la carta stampata? Nell’era della televisione via cavo e delle notizie 24 ore su 24, cosa può fare un oggetto obsoleto come un volume di 336 pagine? La risposta è: “Può fare molto, forse anche far cadere un presidente degli Stati Uniti”, quanto meno se il libro si chiama Fire and Fury. Inside the Trump White House.
Prima di tutto qualche dato: il libro del giornalista Michael Wolff è non solo primo nelle classifiche di vendita online di Amazon.com ma è anche esaurito nelle librerie americane e l’editore Henry Holt non garantisce di riuscire a far arrivare delle altre copie prima di due o quattro settimane, un tempo che nella politica di Washington equivale all’era glaciale. Per il momento non ci sono cifre disponibili, ma sarebbe strano se, nei sei giorni in cui è stato fisicamente disponibile, non avesse già venduto un milione di copie.
Gli americani continuano a preferire i libri cartacei (il 65% ne ha letto uno l’anno scorso) agli e-book, che hanno raggiunto solo il 28% della popolazione, una percentuale sostanzialmente immutata negli ultimi tre anni. I libri sembrano soffrire meno dei giornali della concorrenza dei contenuti online e di quella dei social media, che sono anzi diventati le nuove piattaforme per il club del libro di Oprah Winfrey, il conduttore televisivo più ricco e celebre degli Stati Uniti.
L’aspetto più curioso del tornado politico che ha investito Trump pochi giorni fa, quando il quotidiano inglese The Guardian ha pubblicato le prime anticipazioni è proprio questo: il potere di un libro accurato, approfondito, interessante, ma che in fondo dice quello che la maggior parte dei media scrivono o mostrano tutti i giorni da due anni e cioè che Donald Trump è un uomo di televisione, narcisista e ignorante, completamente inadatto a fare il presidente.
In realtà, Fire and Fury si distingue dalla dozzina di altri libri su Trump usciti nell’ultimo anno perché ha la caratteristica fondamentale dei grandi reportage: suona vero. Le citazioni assassine che riempiono il libro non sono state sostanzialmente smentite dai protagonisti, in particolare da Stephen Bannon, l’artefice della vittoria elettorale, che era stato licenziato dal presidente nell’agosto scorso e ora ha perso anche il suo posto come direttore di Breitbart News a causa di ciò che dice nel libro sulla famiglia di Trump. I furiosi attacchi dei collaboratori del presidente contro l’autore hanno rafforzato, invece che indebolito, la credibilità del testo.
Il lettore viene trasportato nell’atmosfera di una corte rinascimentale più pericolosa di quella dei Borgia, dove non si usa più il veleno contro amici e nemici solo perché sarebbe troppo difficile procurarselo e troppo facile farsi scoprire dall’FBI. Per il resto, tutti sono in guerra contro tutti, usando le fughe di notizie verso i giornali come arma per screditare gli altri cortigiani, accusandoli di incompetenza o di slealtà. Le scelte politiche dipendono da chi ha successo nell’ottenere l’attenzione del Grande Capo, un leader sulla cui fondamentale stupidità tutti i collaboratori sembrano non avere dubbi. Fa una certa impressione leggere che il cervello di Trump “pare incapace di svolgere i compiti essenziali per il suo ruolo” e che “non ha la capacità di pianificare, organizzare e prestare attenzione” o che, addirittura, “semplicemente non riesce a fare il legame tra causa e effetto”.
Naturalmente, la prima domanda che tutti hanno fatto a Wolff è come sia stato possibile per lui raccogliere una tale quantità di materiale compromettente sui primi nove mesi di presidenza: dichiarazioni, comportamenti, situazioni che certamente nessuno alla Casa Bianca avrebbe voluto rendere pubbliche. “È stato Trump ad autorizzarmi” ha risposto Wolff, “sembrava che di un libro non gli importasse nulla”. Il che non sorprende, visto che Trump non legge libri, giornali e nemmeno i dossier che gli presentano i suoi collaboratori: per lui esiste solo la televisione. I libri sono fuori dal suo orizzonte temporale, che non va oltre Fox News, da cui scaturiscono i suoi bizzarri tweet mattutini: un libro è qualcosa che comparirà l’anno prossimo, tra due anni, forse quando saremo tutti morti.
Una volta ottenuto il placet del Grande Capo, Wolff si è sostanzialmente mimetizzato nella tappezzeria, assistendo a decine di riunioni a cui non avrebbe dovuto assistere e facendosi raccontare le altre dai consiglieri e funzionari che erano stati presenti. Il suo lavoro è stato più facile del previsto perché, fin dal giorno del giuramento di Trump come presidente, alla Casa Bianca si sono formate due fazioni in lotta senza quartiere fra loro: la corrente “normalizzatrice” della Casa Bianca, rappresentata dalla figlia Ivanka e dal genero di Trump Jared Kushner e la corrente fascistoide incarnata da Stephen Bannon. Nel mezzo, i rappresentanti dell’establishment repubblicano come il capo di gabinetto Reince Priebus, che tuttavia sapevano fin dall’inizio di non avere alcun potere reale. E, come si è detto, la vera arma nella competizione interna erano i famigerati leaks, le fughe di notizie per danneggiare gli avversari.
Kushner e Ivanka volevano riportare rapidamente l’amministrazione a un conservatorismo di stampo classico, sia pure con venature sociali: taglio delle tasse a beneficio di Wall Street e forti spese militari ma attenzione ai problemi delle madri che lavorano e ai problemi dell’assistenza sanitaria. Bannon, al contrario, voleva attuare la piattaforma nazional-populista su cui Trump si era fatto eleggere, quindi scatenare la caccia agli immigrati, costruire un muro al confine con il Messico, imporre dazi doganali esorbitanti sui prodotti cinesi. La politica, tuttavia, veniva dopo le rivalità personali, le preoccupazioni di carriera, l’incubo di essere coinvolti nell’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sulle possibili collusioni con i russi durante la campagna elettorale del 2016.
I pettegolezzi succosi contenuti nel racconto di Wolff hanno fatto la felicità dei giornali negli ultimi dieci giorni, ma il vero tema del libro non è l’instabilità mentale del presidente bensì lo stato della presidenza, un’istituzione palesemente in crisi se qualcuno come Trump può arrivarci senza difficoltà insormontabili e restarci per quattro anni (la mancanza di attenzione, il disinteresse per i dettagli politici e l’irascibilità non sono ragioni sufficienti per dichiararlo “incapace di attendere ai suoi doveri” e rimuoverlo dalla carica attraverso l’impeachment o in base al XXV emendamento della Costituzione).
Sulla presidenza, Fire and Fury è un libro che sta insieme a due classici che risalgono ad oltre mezzo secolo fa: The Making of the President 1960 di Theodore White e The Selling of the President di Joe McGinniss, sulle elezioni del 1968. Inoltre, è una specie di prologo al libro che qualcuno prima o poi scriverà sulla scia di Tutti gli uomini del presidente di Bob Woodward e Carl Bernstein, la “storia ufficiale” del caso Watergate che condusse alle dimissioni di Richard Nixon.
A differenza di Tutti gli uomini del presidente, però, Fire and Fury è la storia di un duro scontro politico ancora in corso e aperto a tutti i risultati, non la celebrazione della vittoria di giornalisti tenaci e onesti contro un presidente fellone. E stavolta la vittoria dei “buoni” è tutt’altro che sicura: le speranze dei democratici di rivelazioni clamorose sulla collusione con Putin sono probabilmente mal riposte. Da un lato non è detto che il procuratore speciale Robert Mueller riesca a portare a termine la sua inchiesta perché nel sistema americano i procuratori federali dipendono dall’esecutivo e il presidente li può licenziare in qualsiasi momento. Dall’altro, se è relativamente facile incastrare i pesci piccoli per qualche violazione della legge, i pesci grossi fanno sempre in modo di avere le mani pulite, di non lasciare tracce.
Nel caso di Trump, il genero Jared Kushner e il figlio Don junior potrebbero avere dei problemi ma lui personalmente no. Come ha detto Stephen Bannon, in campagna elettorale l’armata Brancaleone trumpiana era troppo disorganizzata perfino per coordinarsi con il partito repubblicano, difficile che riuscisse a cospirare in assoluto segreto con una potenza straniera.
Intanto, però, il libro di Wolff ha gravemente indebolito Trump dal punto di vista politico e ha dimostrato che, nell’era di Twitter, la carta stampata non è ancora morta.
Fabrizio Tonello