SOCIETÀ
Social media, da rete libera a “bavaglio” sociale
I fori di proiettile in seguito alla sparatoria nell'attentato del 18 marzo 2015 a Tunisi Foto: REUTERS/Zoubeir Souissi
Sembrano ormai lontanissimi i tempi delle cosiddette ‘primavere arabe’, quando una ventata di genuina democrazia, spesso attivatasi grazie alla Rete, aveva investito numerosi paesi arabi, costringendo alla resa dittatori che regnavano indisturbati da decenni. Era appena quattro anni fa e i recenti sviluppi mediorientali hanno portato molti osservatori a dubitare della bontà a lungo termine di quei repentini cambi di regime. Siria e Libia sono nel pieno di una complicatissima guerra civile; il terribile califfato islamico occupa parte di quei territori e minaccia l’occidente e le nazioni islamiche limitrofe; l’Egitto è di fatto passato attraverso due colpi di stato e dopo Mubarak e Morsi è ora al potere un nuovo autocrate, il generale al-Sisi. L’Iraq è rimasto la polveriera che era, la Turchia si sta spostando su posizioni sempre più islamiste e conservatrici e la Tunisia, unico esempio rimasto di transizione democratica positiva è stata teatro di quegli attacchi terroristici dei giorni scorsi che tutti conosciamo.
Se la ricontestualizzazione delle primavera arabe è all’ordine del giorno nel dibattito politico e nell’agenda mediatica, meno spazio a questo livello sembra ottenere una riflessione sul ruolo dei social media nel mondo arabo. Tema che invece trova notevole interesse accademico.
I social media sono stati considerati il motore delle ‘primavere arabe’ e un essenziale strumento di organizzazione e mobilitazione. È praticamente impossibile scrivere una storia delle Arab Spring senza definire un ruolo centrale per i social media. Tuttavia, i succitati sviluppi socio-politici mediorientali costringono a rivedere molte delle riflessioni ottimistiche fatte a suo tempo. Il fallimento di molti di questi movimenti sociali, la restaurazione di regimi illiberali e l’incarcerazione di blogger, opinion leader e vari attivisti del web a loro tempo protagonisti, costringe a interrogarsi sull’efficacia politica a medio termine dei social media. Clay Shirky, che nel 2008 pubblicò il volume Here Comes Everybody: The Power of Organizing without Organizinge che è stato uno dei maggiori sostenitori dell’importanza dei social media per le primavera arabe, ha di recente corretto il tiro, sostenendo che nei suoi scritti più recenti ha sottovalutato l’importanza delle forme di organizzazione tradizionale e che adesso considererebbe il ruolo dei social media come quello di un mero facilitatore delle proteste. Secondo Shirky, l’assenza di forme tradizionali di organizzazione ha impedito a queste manifestazioni spontanee di durare nel tempo e di sopravvivere agli inevitabili cali di entusiasmo. Una posizione simile è ora tenuta anche da Philip Howard che fu tra i primi a ragionare scientificamente su social media e Arab Spring nel suo libro del 2013 Democracy’s Fourth Wave? Digital Media and the Arab Spring. Secondo il docente della Washington University l’accesso alla Rete fu solo una delle tante cause che contribuirono alle rivolte e comunque, quali che siano questi nuovi regimi autocratici instauratisi di recente, ora dovranno temere il giudizio e la potenza del Web.
In realtà, l’osservazione più ovvia della situazione odierna è che le élite non democratiche e perfino i gruppi terroristici hanno imparato a usare a loro vantaggio i social media e stanno investendo tempo e risorse nel trasformare la Rete da luogo di conversazione e libertà a strumento di controllo sociale. Sono ora infatti disponibili i primi studi su come alcuni regimi arabi stiano utilizzando tecniche specifiche per neutralizzare online le voci dell’opposizione, attraverso per esempio l’uso di script automatici (‘bots’), tesi a depotenziare hashtags di Twitter ritenuti pericolosi, inondandoli di contenuti a essi estranei. Sotto osservazione vi sono quindi i mutamenti dei comportamenti online di massa ed élite prima e dopo le rivolte del 2011. È ormai evidente quindi che i social media non sono importanti solo per I rivoltosi ma anche per le élite economiche e politiche sotto attacco, che dalle primavere arabe stesse hanno imparato a manipolare, depotenziare e zittire gli oppositori utilizzando tutti i mezzi a disposizione, compresi quelli più tecnologici. L’uso manipolatorio e perfino terroristico dei social media è di stringente attualità nel caso dell’Isis, dove i profili Twitter e Facebook dei simpatizzanti e degli aderenti sono il primario mezzo di comunicazione e reclutamento del Califfato. In questo caso, al di là delle note polemiche riguardanti la necessità di zittire o chiudere questi profili che incitano all’odio e alla violenza, sarà di nuovo di preminente interesse scientifico capire se l’Isis, specularmente alle Arab Spring, riuscirà a sopravvivere una volta che il diabolico entusiasmo iniziale sarà finito e gli account online non basteranno più per organizzarsi e propagandare il proprio verbo fatto di violenza.
Marco Morini