SCIENZA E RICERCA

Antroponosi: come gli umani infettano gli altri animali

Con la pandemia da SARS-CoV-2, è diventato d’uso comune un termine prima appannaggio della ricerca scientifica: zoonosi. La parola connota un fenomeno biologico molto preciso, cioè la trasmissione di un patogeno da un’altra specie animale all’uomo. Anche la Covid-19 è, con ogni probabilità, una malattia zoonotica, e il cosiddetto ‘salto di specie’ del virus che la causa è stato reso possibile dalla concomitanza di una serie di fattori come la concentrazione di grandi masse di popolazione in luoghi ristretti e a stretto contatto con animali domestici e selvatici, la diminuzione e degradazione degli ecosistemi in cui gli animali selvatici portatori dell’agente patogeno vivono, la commercializzazione (spesso illegale) degli animali stessi.

Spillover al contrario

Quell’evento, che ha còlto il mondo impreparato, ha consentito di portare l’attenzione sul tema delle zoonosi e, più in generale, del modo in cui le popolazioni umane si relazionino alle altre specie viventi, e a come convivano con esse. Fin dai primi mesi della pandemia, la comunità scientifica ha speso molte energie nel cercare di gettare luce sui meccanismi biologici che consentono il salto di specie e sulle dinamiche ecologiche ed evolutive dei virus. Si sono studiati a fondo gli elementi di contesto che rendono più probabile il diffondersi di zoonosi, e si sono migliorati i protocolli di prevenzione in tal senso.

Grazie a un grande sforzo collaborativo di sequenziamento di agenti virali e di condivisione dei risultati ottenuti, anche i dati genetici sui virus sono aumentati in modo esponenziale. La disponibilità pubblica di questi dati è ancora oggi un’importante fonte di informazioni per la ricerca, come dimostra un nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Ecology and Evolution, che riporta i risultati dell’analisi di 59.000 sequenze virali alla ricerca, come spiegano i ricercatori, dei meccanismi macroevolutivi che rendono possibile la trasmissione e l’adattamento dei virus da una specie all’altra.

Lo studio, condotto da tre ricercatori dello University College e del Francis Crick Institute di Londra, restituisce risultati molto interessanti e, per alcuni versi, inaspettati. In primo luogo, gli studiosi hanno dovuto affrontare un problema di standardizzazione: la biologia dei virus è complessa, e le normali classificazioni tassonomiche, basate su considerazioni morfologiche, genetiche ed ecologiche, spesso non riflettono in maniera adeguata le ‘parentele’ evolutive tra queste forme di vita. Per ovviare a questo problema, i ricercatori londinesi hanno dunque adottato un approccio “agnostico” dal punto di vista delle specie e hanno definito una serie di più di 5.000 “gruppi virali” che rappresentano «unità tassonomiche discrete con livelli di diversità genetica simili». Uno dei primi dati interessanti emersi da questa operazione è che, nonostante la caratterizzazione genetica dei virus sia fortemente pregiudicata da un bias antropocentrico (cioè, si tende a sequenziare solo i virus che, in un modo o nell’altro, arrivano in contatto con l’essere umano, lasciando così nel buio l’enorme rete ecologica virale con cui la nostra specie non entra in contatto), ben il 62% dei gruppi virali individuati non abbiano alcuna relazione ecologica con gli umani. «Questo – affermano gli autori dello studio – evidenzia la grande diversità di virus animali nella rete globale di trasmissione di virus».

Un altro dato interessante, e ancor più controintuitivo, riguarda la direzione, per così dire, degli eventi di trasmissione virale. A discapito del nostro concentrarci quasi esclusivamente sulle zoonosi (trasmissione da altri animali agli umani), i ricercatori hanno rilevato che i salti di specie antroponotici (cioè dagli umani ad altri animali) sono molto più frequenti di quelli zoonotici: il 64% contro il 36%, rispettivamente. Inoltre, il maggior numero di salti di specie antroponotici è stato riscontrato nei gruppi virali che rappresentano il SARS-CoV-2, il MERS-CoV e l’influenza A, e ben 16 famiglie virali su 21 sono coinvolte più in antroponosi che in zoonosi.

Meccanismi evolutivi dello spillover

Per individuare i più efficaci strumenti di prevenzione di fenomeni di spillover, è necessario comprendere quali siano i meccanismi biologici che favoriscono il passaggio di un virus da una specie ospite all’altra. A rendere possibile lo spillover è in primo luogo la presenza, in una determinata specie virale, di caratteristiche che favoriscono il suo adattamento a un ambiente (il nuovo animale ospite) diverso da quello al quale è già adattato. Secondo i ricercatori, tuttavia, il livello di cambiamento adattativo necessario per compiere il salto di specie non è costante, ma può variare in base a diversi fattori: una delle ipotesi confermate dallo studio è che la forza della selezione associata a un salto di specie è minore nei virus che riescono a sopravvivere in più specie ospiti diverse. In altri termini, virus più generalisti hanno bisogno di meno adattamenti per saltare da una specie all’altra, suggerendo che alcuni virus siano intrinsecamente più adatti di altri a infettare specie diverse, probabilmente sfruttando tratti biologici conservati in diversi taxa e risultando così più pericolosi per l’emersione di zoonosi. Inoltre, le ricerche condotte sui gruppi virali identificati dagli scienziati hanno confermato che «il livello di adattamento associato a un salto di specie varia, probabilmente, in relazione alla funzione dei singoli geni, alla regione genica e alla famiglia virale».

Questa ricerca, ammettono gli autori, presenta ancora diversi limiti: ad esempio, vi sono degli evidenti bias nella disponibilità di dati di partenza. I genomi virali sequenziati sono ancora pochi e restituiscono un’immagine molto parziale, che sovrarappresenta il mondo virale legato alla sfera umana e trascura il resto: la maggior parte delle sequenze disponibili sono relative a virus associati a vertebrati (93%), e il 93% di questo sottoinsieme è composto da virus associati agli umani. Inoltre, vi sono anche dei bias geografici, dal momento che la maggior parte dei dati raccolti è relativa al Nord America e alla Cina, mentre regioni come l’Africa, l’Asia centrale, il Sud America e l’Europa orientale sono fortemente sottorappresentate.

Questi vuoti di conoscenza nella sorveglianza genomica dei virus suggeriscono che «per ora abbiamo soltanto raschiato la superficie della grande diversità dei virus in natura», concludono gli autori della ricerca. «Nonostante il preponderante bias antropocentrico nella sorveglianza virale, l’81% dei salti di specie individuati in questo studio non coinvolge gli umani, il che mette in luce l’enormità, per quanto trascurata, della rete globale di trasmissione virale».

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