Mercoledì 22 dicembre 2021 verrà lanciato il James Webb Space Telescope che promette alla comunità scientifica di mandare in pensione Hubble e soprattutto di cambiare la percezione dell’universo di tutti noi. Nell’attesa continuiamo a parlare di alcuni telescopi spaziali che lo hanno preceduto, arrivando a parlare di Kepler. Chiamato in onore dell’astronomo e matematico tedesco Johannes Kepler, o anche Keplero in italiano, il telescopio spaziale ha osservato, nei suoi nove anni e mezzo abbondanti di servizio, 530.506 stelle. Kepler è considerato tra i telescopi spaziali più fruttuosi, visti i 2.662 pianeti extrasolari scoperti.
Lanciato in orbita dalla Nasa nel marzo 2009, Kepler aveva uno scopo ambizioso: osservare il cosmo, direttamente dallo spazio, alla ricerca di pianeti con il metodo dei transiti. Si tratta di un metodo fotometrico che consiste nella rilevazione della diminuzione di luminosità della curva di luce di una stella quando il pianeta si trova a transitare davanti alla sua stella. Servono almeno tre transiti per confermare la natura planetaria degli oggetti osservati. Essendo fuori dall’atmosfera terrestre queste misurazioni possono essere più precise rispetto a quelle ottenute da Terra, perché il “rumore” fotonico prodotto dall’atmosfera stessa è eliminato.
Kepler faceva parte di una serie di missioni, le Discovery, che avevano degli obiettivi scientifici ben precisi, pur disponendo di budget ridotti. Il telescopio è stato specificatamente progettato per monitorare una porzione della Via Lattea e scoprire pianeti simili alla Terra che si trovino nella zona abitabile, quindi determinare quante delle stelle della nostra galassia abbiano pianeti attorno a sé. Diversamente da Corot, un missione europea lanciata un anno prima, Kepler avrebbe dovuto fare una vera e propria statistica.
“Kepler ha cambiato la prospettiva nello studio dei pianeti extrasolari, perché ha permesso, per la prima volta, di capire quanto i pianeti sono comuni attorno alle stelle, in particolare in funzione del loro raggio, delle loro dimensioni e delle caratteristiche delle loro stelle” racconta Valerio Nascimbeni, ricercatore dell’Osservatorio astronomico di Padova Inaf.
Intervista a Valerio Nascimbeni, ricercatore dell'Osservatorio Astronomico di Padova- Riprese e montaggio di Elisa Speronello. Immagini: NASA
Dalle osservazioni di Kepler gli scienziati hanno imparato molto, sono innumerevoli infatti le pubblicazioni scientifiche basate proprio su di loro. In generale possiamo riassumere in tre punti principali le maggiori scoperte scientifiche prodotte dai risultati di Kepler nel corso degli anni.
In primo luogo si è confermato che i pianeti giganti gassosi tendono a formarsi da nubi proto-stellari che contengono una grande quantità di metalli. Questo consente la formazione di nuclei rocciosi, che accumulano gravitazionalmente involucri di gas fino a diventare giganti gassosi. Poi grazie a Kepler è stato possibile confermare che i dischi di gas che si trovano attorno alle stelle più giovani si dissipano entro qualche milione di anni, quindi il tempo per formare un pianeta gigante gassoso non è molto, di conseguenza è possibile solo se il suo nucleo roccioso ha una massa sufficientemente grande. Ne consegue ulteriormente che i giganti gassosi sono rari nella nostra galassia, rispetto a pianeti più simili alla Terra attorno a stelle con un basso contenuto di metalli. Infine, visto che i pianeti simili alla Terra non richiedono condizioni particolari per la loro formazione, potrebbero essere diffusi omogeneamente nella nostra galassia.
“Estrapolando i risultati che abbiamo ottenuto da Kepler”, continua Nascimbeni, “sappiamo che i pianeti di tipo roccioso, nella fascia abitabile di stelle simili al Sole, sono particolarmente comuni. Secondo alcune stime intorno al 50% di queste stelle hanno pianeti rocciosi di fascia abitabile. Questi pianeti, ovviamente, non sono stati ancora scoperti con un alto margine di sicurezza da Kepler, ma saranno piuttosto l'obiettivo di future missioni spaziali”.
La missione Kepler è stata dichiarata conclusa dalla Nasa verso la fine del 2018, per l’esaurimento del carburante a bordo. La durata della missione era stimata attorno ai 10 anni, ma il telescopio però ha avuto un problema tecnico al quarto anno ma, di fatto, “le osservazioni non sono finite” spiega Valerio Nascimbeni “in un secondo stadio della missione chiamata K2, Kepler 2, il telescopio, cambiando completamente strategia, osservando non già solo la stessa area del cielo per un grande numero di anni ininterrottamente, ma ha iniziato una mappatura ancora più estesa del cielo, andando ad osservare di circa due-tre mesi in due-tre mesi altre aree del cielo, e quindi di fatto espandendo quella che era il numero di stelle che poteva andare a osservare.
Schema del campo visivo di Kepler insieme alle coordinate celesti - Credit: NASA/Ames/JPL-Caltech, Image credit: Software Bisque
In quanto al suo “occhio”, Kepler osservava solamente un porzione di galassia: il suo campo visivo era fisso e copriva 115 gradi quadrati, circa lo 0,28% della volta celeste. Con altri 400 telescopi come Kepler sarebbe stato possibile osservare tutto il cosmo. I dati raccolti da Kepler venivano scaricati una volta al mese, ma lo stesso Kepler era in grado di effettuare le prime analisi scientifiche a bordo, per poi trasmettere solo i dati ritenuti necessari alla missione, con l’obiettivo di risparmiare sia banda nella trasmissione del segnale, sia tempo. I dati venivano quindi trasmessi al Kepler Data Management Center, che si trovava allo Space Telescope Science Institute a Baltimora, nel campus della Johns Hopkins University. Così Kepler si trova ancora oggi, con i motori spenti e i suoi "occhi" chiusi, ad orbitare attorno alla Terra, al sicuro da eventuali cadute nella nostra atmosfera e sufficientemente lontano da altri corpi del sistema solare.