SCIENZA E RICERCA

Cambiare l’uso del suolo per sfamare tutti in modo sostenibile

Entro pochi decenni, la popolazione umana mondiale potrebbe raggiungere i 10 miliardi. Per sfamare un tale numero di persone, anche la produzione di cibo dovrà aumentare in modo esponenziale. Ci troviamo, tuttavia, su un pianeta finito, che può offrire una quantità limitata di risorse. Molte di queste, inoltre, non sono rinnovabili (se non in un ordine temporale ben superiore a quello umano), e la loro disponibilità è già oggi sensibilmente ridotta.

La produzione di cibo dipende dai servizi ecosistemici, funzioni insostituibili garantite da ecosistemi naturali in buona salute. La presenza di acqua pulita, la biodiversità, lo stoccaggio di carbonio, la fertilità dei suoli sono alcuni dei servizi ecosistemici essenziali perché qualsiasi forma di produzione alimentare sia possibile.

La crisi ambientale in atto (costituita da cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento e degradazione del suolo, nonché dalle interazioni tra questi fattori) costituisce un grave rischio per la sicurezza alimentare in tutto il mondo. Il venir meno di una variabilità climatica stagionale relativamente stabile e la perdita di funzionalità degli ecosistemi sono solo due tra i numerosi fattori che contribuiranno, nei prossimi decenni, alla riduzione della produttività dei terreni in tutto il mondo.

Al tempo stesso – e qui la paradossalità della crisi ambientale si mostra in tutta la sua evidenza – proprio il settore alimentare contribuisce in modo sostanziale ad aggravare la crisi. In un rapporto intitolato “Climate change and land” (2019), l’IPCC ha calcolato che, tenendo conto di tutte le fasi della produzione alimentare, dalla coltivazione alla trasformazione al trasporto, il comparto agricolo causa circa un quarto del totale mondiale annuo di emissioni di gas climalteranti. Il cambiamento dell’uso dei suoli (ad esempio, la trasformazione di un’area boschiva in pascolo) rappresenta un concreto rischio per il mantenimento della diversità biologica ed ecologica. Infine, la progressiva adozione di tecniche più moderne ha comportato l’utilizzo sempre più massiccio di sostanze chimiche, il cui accumulo negli ambienti terrestri e marini ha causato una vera e propria crisi di inquinamento.

Una trasformazione del settore alimentare è perciò necessaria. Tuttavia, sembra che vi siano due esigenze opposte da soddisfare: da un lato, la necessità di aumentare ulteriormente la produzione, intervenendo sia sull’estensione delle aree terrestri sfruttate a questo scopo, sia sull’intensità dello sfruttamento di queste aree. Dall’altro lato, però, vi è la necessità di ridurre drasticamente l’impatto che le attuali modalità di produzione alimentare hanno sul mondo naturale.

L’analisi di questi complessi bilanciamenti è già in corso, sia in ambito politico ed economico, sia nel mondo accademico. In un articolo pubblicato sulla rivista scientifica PNAS, un gruppo di ricercatori tedeschi ha condiviso i risultati di un’analisi globale su quali cambiamenti dovrebbero essere realizzati per far sì che le due esigenze a cui abbiamo accennato prima – la necessità di aumentare la produzione alimentare e la tutela degli ambienti naturali – vengano armonizzate. La soluzione proposta da Anita Bayer e dai suoi collaboratori appare piuttosto lineare: ottimizzazione.

Prendendo in considerazione il potenziale biofisico del pianeta, ed escludendo intenzionalmente una serie di altri fattori che, ‘nel mondo reale’, influiscono sull’andamento della produzione agricola, i ricercatori hanno dimostrato, costruendo uno scenario al 2033-2042 e uno al 2090-2099, che un aumento della produzione è possibile e non è necessariamente incompatibile con la tutela dell’ambiente.

Tra i passaggi più interessanti dell’articolo vi è il come: la proposta consiste in una vasta riorganizzazione della destinazione d’uso dei suoli su scala globale tenendo conto di come cambieranno le condizioni climatiche – e dunque la fertilità dei suoli – nelle varie regioni in risposta all’innalzamento delle temperature, e sfruttando nella maniera più efficiente possibile le terre disponibili.

Combinando un modello della distribuzione globale della vegetazione variabile in base alle condizioni climatiche con un algoritmo di ottimizzazione, i ricercatori hanno individuato i cambiamenti che bisognerebbe attuare per migliorare l’efficienza del sistema di produzione alimentare globale. Da questa riorganizzazione si trarrebbero vantaggi evidenti: secondo i calcoli condotti dagli studiosi tedeschi, in uno scenario di emissioni climalteranti moderatamente alte (RCP, Representative Concentration Pathway, 6.0,) entro la fine del secolo la produzione alimentare aumenterebbe dell’83%, la disponibilità d’acqua dell’8%, la capacità di stoccaggio del carbonio del 3%.

Nello studio vengono identificate le aree più adatte per tre diverse destinazioni d’uso dei terreni: aree naturali, coltivazioni, pascoli. Per quanto riguarda le aree naturali, la modellizzazione suggerisce che tutelare gli ecosistemi forestali tropicali e boreali offrirebbe il massimo beneficio in termini di stoccaggio del carbonio, riconoscendo così il ruolo centrale di questi ecosistemi come bacini per trattenere il carbonio. Realizzare questo scenario richiederebbe che molte aree ora coltivate fossero riconvertite a foreste, e per compensare questa perdita di superficie produttiva sarebbe necessario aumentare le aree coltivate soprattutto nelle zone temperate. Soddisfare questa esigenza, tuttavia, sembra non essere un problema: dall’analisi emerge che la più ragionevole destinazione d’uso dei suoli nelle regioni temperate è proprio la coltivazione, dal momento che il clima è favorevole alla crescita delle colture, i suoli sono di buona qualità e il consumo di acqua e la trasformazione di aree forestali sono molto ridotti rispetto ad altre regioni del pianeta. Ridurre le zone coltivate nelle regioni aride e concentrarle nelle regioni temperate, dove vi è maggiore disponibilità d’acqua, consentirebbe inoltre di ridurre drasticamente il consumo di questa risorsa, che oggi è invece molto alto: circa il 40% del consumo di acqua dolce è infatti imputabile all’agricoltura. Infine, il modello suggerisce che i luoghi più adatti per la coltivazione dei terreni a pascolo sono le praterie e le savane subtropicali e tropicali, nelle quali già oggi si concentra il 79% dei pascoli esistenti.

Pur non puntando a suggerire soluzioni da attuare nell’immediato, e riconoscendo la difficoltà di mettere in pratica cambiamenti così drastici in così tante regioni, i ricercatori evidenziano quanto il margine di miglioramento per il settore agricolo sia ampio. In molti casi, infatti, gli usi attuali non combaciano con l’utilizzo che sarebbe ottimale in termini di sfruttamento delle risorse. I maggiori cambiamenti nella destinazione d’uso dei suoli andrebbero implementati in regioni come l’India, l’Africa subsahariana e, in parte, il bacino amazzonico.

È interessante notare che il cambiamento suggerito per l’Amazzonia, nello specifico, non è il ritorno a una condizione naturale (cioè di assenza di sfruttamento diretto da parte degli umani), ma la conversione a pascolo. Si tratta di un suggerimento controintuitivo, lontano dalla retorica del “salvare le foreste pluviali”, ma che nasce da una motivazione precisa: nel 2090-2099, verso cui guarda uno degli scenari proposti, il bacino amazzonico non sarà, da un punto di vista climatico ed ecologico, lo stesso di quel che è ora: il clima sarà molto più secco, e a quel punto il pascolo sarà la destinazione d’uso più efficiente.

Come afferma in un comunicato stampa Sven Lautenbach, un altro dei firmatari della ricerca, è importante prendere sul serio la possibilità di realizzare questi cambiamenti in modo pianificato, perché “in ogni caso il cambiamento climatico causerà profonde modificazioni nella distribuzione globale delle aree coltivate”. È dunque più logico prepararsi per tempo a questo cambiamento, anticipandolo e indirizzandolo nella maniera più efficiente e razionale possibile.

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