SCIENZA E RICERCA

Così i migranti europei portarono l’agricoltura in Africa

Mediterraneo: crocevia di popoli e culture, che divide e unisce tre continenti – contenenti quasi l’85% della popolazione mondiale – e dove ancora oggi continuano a incontrarsi e a scontrarsi nord e sud, oriente e occidente. Un grande “lago salato” che da millenni è costeggiato e attraversato da popolazioni in movimento: un lungo processo in cui all’inizio, con l’arrivo dell’homo sapiens, l’Europa è stata più spesso terra di arrivo. Oggi però sappiamo che anche le migrazioni provenienti da nord verso le sponde africane hanno giocato un ruolo importante: a dircelo sono nuovi studi che mettono insieme le evidenze archeologiche con le ricerche condotte sul DNA.

In particolare sarebbero state popolazioni provenienti dall’Europa a portare nell’attuale Maghreb conquiste fondamentali come l’agricoltura, l’allevamento e la lavorazione della ceramica: scoperte che segnano il passaggio dal mesolitico al neolitico e che avrebbero ricevuto impulso dall’attraversamento da parte di alcuni gruppi umani dello stretto di Gibilterra. È quanto scrive Rafael M. Martínez Sánchez, archeologo dell’università di Córdoba, in un recente articolo pubblicato su The Conversation che mette inisieme i risultati di diverse ricerche condotte negli ultimi anni sui siti preistorici del Marocco.

Secondo le attuali conoscenze, agricoltura e allevamento appaiono per la prima volta intorno al 9.000 a.C. nell’area della cosiddetta mezzaluna fertile (termine coniato nel 1914 dallo storico e archeologo James Henry Breasted), dando origine alla cosiddetta rivoluzione neolitica: con il surplus garantito dai raccolti di cereali e legumi la popolazione aumenta e sorgono le prime città; crescono inoltre il commercio e l’artigianato, in particolare quello della terracotta, che da allora fornisce uno dei modi più comuni per stabilire l’origine, le influenze e le relazioni di un insediamento umano. Un metodo al quale negli ultimi anni si sono affiancate analisi genetiche sempre più precise, che hanno rivoluzionato il modo di fare archeologia e di comprendere epoche così lontane da noi.

Oggi è dunque possibile studiare con precisione crescente le modalità e le vie attraverso le quali la rivoluzione neolitica si è diffusa in Anatolia per poi attraversare, intorno al 6.500 a.C., il Mar Egeo e penetrare in Grecia e nei Balcani. In seguito le comunità portatrici della nuova cultura impiegano quasi un millennio per arrivare, tramite l’Italia e la costa mediterranea della Francia, nella penisola iberica, nello stesso periodo in cui l’agricoltura compare in Corsica e in Sardegna e si espande gradualmente attraverso i bacini fluviali dell'Europa continentale. Infine le tribù di agricoltori attraversano il mare e si dirigono in Marocco, come confermano i ritrovamenti effettuati una decina di anni fa dal team ispano-marocchino guidato proprio da Martínez Sánchez.

Fino a pochi anni fa era possibile ricostruire il loro percorso soprattutto grazie alle tracce della cosiddetta cultura della ceramica cardiale: a quanto ancora oggi ne sappiamo infatti le popolazioni autoctone del Nord Africa non producevano questo tipo di manufatti, che quindi sarebbero arrivati con le nuove genti provenienti dalla costa mediterranea della Spagna. Una congettura largamente comprovata dalle evidenze archeologiche, che però oggi riceve un’ulteriore conferma dalle analisi genetiche condotte sui resti umani scoperti in Marocco vicino a Tétouan, risalenti a un periodo compreso tra 5.400 e il 5.100 anni a.C.

Lo studio, appena pubblicato su Nature e condotto su quattro individui rinvenuti nella grotta di Kaf Taht el-Ghar, raccontano una storia di incroci e incroci transcontinentali: questi antichi abitanti del Maghreb sono infatti risultati geneticamente simili ai popoli neolitici europei, per lo più di origine anatolica, mentre il contributo genetico dei locali costituisce appena il 15-20% del totale.

Questo però non sembrerebbe significare che i nuovi gruppi provenienti da nord abbiano sopraffatto o sostituito quelli autoctoni: nella vicina grotta Ifri N'Amr Ou Moussa, di poco posteriore, è stata infatti scoperta un'intera comunità con profilo genetico del tutto indigeno, che però coltivava la terra e aveva una propria produzione di ceramiche, tecnologie che quindi si sarebbero diffuse al di là dei legami genetici e ancestrali interni ai diversi gruppi. E non è tutto, perché qualche secolo dopo, intorno al 4.500 a.C., sulla costa atlantica del Marocco appare una nuova popolazione di pastori (le cui tracce sono state rinvenute nella necropoli di Skhirat-Rouazi, vicino a Rabat), che presenta a sua volta uno stile di vita neolitico ma proviene dal Medio Oriente, dal quale sarebbe arrivata percorrendo la costa settentrionale dell’Africa.

È insomma una sorta di movimento a tenaglia a dar luogo al melting pot in cui le tre stirpi – quella anatolica-europea, la mediorientale-africana e l’autoctona – si fondono insieme nel processo di neolitizzazione dell’Africa nordoccidentale: prova ne è il Dna umano risalente al 3.700 a.C. scoperto nel sito di Kelif el Baroud, sempre vicino a Rabat, che risulta essere un perfetto mix tra i tre gruppi. Un’assimilazione reciproca, graduale e apparentemente pacifica sarebbe dunque all’origine della popolazione berbera del Nord Africa.

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