UNIVERSITÀ E SCUOLA

Didattica a distanza: e se è un laboratorio?

Mi rendo conto che scrivendo per Il Bo Live sono di parte, ma ho apprezzato molto l'invito del nostro direttore, Telmo Pievani, di parlare su questo giornale di didattica a distanza, o blended, o in qualsiasi modo la vogliamo chiamare, evidenziando problematiche e possibili soluzioni. Nel mio piccolo ci tenevo a dare il mio contributo, perché per me questi mesi di insegnamento a distanza sono stati davvero stressanti.
Come altri che hanno risposto all'appello prima di me, parto dalle premesse, perché alcune delle difficoltà che ho riscontrato derivano sicuramente dalla mia esperienza ancora limitata nel campo dell'insegnamento. Prima che un'insegnante, infatti, sono una digital strategist. Spiego, in altre parole, come comunicare online in una strategia di marketing, utilizzando sito, newsletter e social network, perché ogni media ha il suo linguaggio e le sue buone pratiche.

Solo da cinque anni ho cominciato a tenere delle vere e proprie lezioni su questi argomenti. Non voglio annoiare nessuno spiegando la differenza tra lezione e consulenza, ma mentre nelle seconde mi sono sempre sentita sicura, con le prime avevo qualche problema anche nel pre-lockdown: quando devo parlare con molte persone che non conosco, quindi ogni volta che comincio una docenza, mi si stringe lo stomaco e mi passa la fame. E allora chi me l'ha fatto fare? No, non sono un'azionista della casa produttrice del Maalox (il che farebbe se non altro rientrare la spesa sostenuta), ma, dopo la prima volta in cui ho accettato il lavoro unicamente per ragioni economiche, mi sono resa conto che il problema dell'agitazione si risolveva nel giro di due o tre lezioni, e che quando un corso finiva mi sentivo triste e non vedevo l'ora che cominciasse quello successivo. Il merito di tutto questo non va alle mie capacità di adattamento, ma agli studenti che ho incontrato lungo il mio percorso, che hanno insegnato a me forse più di quanto ho insegnato io a loro.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Un post condiviso da Digital strategist&copywriter (@p.ivanelsacco) in data:

Intendiamoci, perché non vorrei mi si sospettasse di piaggeria: in ogni corso ci sarà qualcuno che si distrae, che guarda il telefonino e che ti chiedi cosa ci stia a fare in classe, visto che il periodo dell'istruzione obbligatoria, nel caso delle mie lezioni, è finito da un pezzo. Però non sono mai mancati nemmeno gli studenti che mi facevano sentire che la mia presenza in aula era per loro significativa, che mi incalzavano con domande facendomi spesso riflettere su aspetti che non avevo considerato. Quando individuo quegli studenti e comincio a interagire con loro, il nodo allo stomaco si scioglie, e tutto fila più o meno liscio, fino a quando non conosco per nome almeno gli occupanti delle prime due file. Per questo motivo, quando al Master in Comunicazione delle scienze mi hanno fatto scegliere se registrare le lezioni (e quindi non incontrare neppure uno studente) o fare lezione su Zoom non ho avuto dubbi, neppure prima che mi dicessero che gli studenti preferivano la seconda opzione. Tanto, mi dicevo, le consulenze a distanza le faccio già e la tecnologia per me non è un problema: ci lavoro!

Peccato che tra il dire e il fare c'è sempre di mezzo l'imprevisto: per prima cosa, saper usare uno strumento non vuol necessariamente dire padroneggiarlo, soprattutto quando bisogna pensare a molte altre cose contemporaneamente, tra gatti che camminano sulla tastiera e vicino che pensa bene di piantare chiodi per due ore di fila. E poi c'è il problema dei distratti: grazie a Zoom possiamo anche guardare in faccia le persone a cui insegniamo, ma la grandezza dello schermo e la connessione ballerina fanno sì che non vediamo bene la loro espressione: come faccio a sapere se Tizio, che non interviene mai, sta giocando con il cellulare, pensando alle vacanze o se non sta capendo nulla di ciò che dico ma non ha il coraggio di chiedere spiegazioni? In classe lo vedi subito, su Zoom no. Quindi se questa modalità di didattica dovesse andare avanti a lungo la mia proposta sarebbe quella di dotare i docenti di un videoproiettore: già vedere le facce più grandi potrebbe aiutare a sondare il sentimento della classe. Ovviamente non serve darlo a tutti i professori: basta mantenere la possibilità, su richiesta, di accedere alle aule e usare quelli che già ci sono. Ancora più importante sarebbe organizzare dei corsi di formazione per sviluppare empatia anche a distanza, cosa che,se ad alcuni viene naturale per altri è molto difficile. Comunque il master non è stato il problema peggiore: a parte un iniziale laboratorio, che comunque si sarebbe svolto con l'interazione online (su Facebook) anche se dall'aula informatica dell'università, le mie lezioni erano abbastanza frontali: mi sarei sentita più a mio agio dal vivo, ma per una situazione di emergenza come questa cercherò di essere auto indulgente.

La vera sfida però, è stata il laboratorio WeSocial che ho sviluppato con Chiara Di Benedetto, una collega che si occupa di progetti di comunicazione e public engagement per la scienza e la ricerca, con l'obiettivo di dare agli studenti le competenze necessarie per mettere online e aggiornare nel tempo i profili Facebook e Instagram del dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione. Prima del Coronavirus avevamo pianificato un certo tipo di attività: gli studenti provenivano da tre corsi di laurea diversi, uno dei quali, tra l'altro, a Vicenza, quindi non si conoscevano tra di loro e spesso non conoscevano neppure i docenti degli altri corsi che li avrebbero supportati nell'attività social. Questo problema, in presenza, si sarebbe risolto facilmente in poche ore attraverso presentazioni e lavori di gruppo: avevamo pensato di visitare il campus di Agripolis per dare spunti fotografici e testuali per i post da preparare, e i docenti ci avrebbero spiegato gli aspetti più scientifici, che vista la nostra formazione ignoravamo. Con queste e altre modalità, le quattro ore consecutive di lezione sarebbero passate velocemente, probabilmente senza che nessuno ci accusasse di sequestro di persona. Quattro ore di lezione diventano però improponibili se fatte su Zoom, quindi per riuscire a finire le lezioni in tempo utile le abbiamo abbreviate aumentando invece il tutoraggio a distanza. Rimaneva un problema non trascurabile: raccontare il campus… senza campus! L'attività di esplorazione, per come l'avevamo pensata, non era più fattibile e così abbiamo pensato di creare delle esercitazioni per raccontare la quarantena. Personalmente a livello psicologico ho sentito molto questa sensazione di rattoppo: non solo perché, per un freelance, la differenza tra lavorare 40 ore o lavorarne quasi 70 per ripianificare e produrre nuovi materiali è la stessa che intercorre tra guadagnare dal proprio lavoro e andare in perdita (quando crei un business plan annuale di sicuro non vai a pensare che esiste l'eventualità di rimanere due mesi chiusi in casa), e perché le comunicazioni si perdevano in due o tre media diversi, ma soprattutto perché avevo costantemente l'impressione che si stesse perdendo lo spirito del lavoro di gruppo, fatto di confronto e collaborazione, nonostante avessimo anche creato delle stanze su Zoom in cui i referenti del progetto, i docenti e il personale tecnico e amministrativo, potessero parlarsi e conoscersi.

Intendiamoci, credo che il corso abbia portato comunque il Dipartimento ai risultati che ci proponevamo con questo progetto, e ho visto una grandissima collaborazione tra tutte le parti in causa: durante questa emergenza l'università di Padova ha confermato di sapersi adattare al cambiamento con la massima disponibilità e anche l'entusiasmo che secondo me non dovrebbe mai mancare quando si parla di didattica. Di fatto, però, ho pensato spesso a come avremmo potuto migliorare il laboratorio e recuperare quella parte di interazione e conoscenza, e non mi è venuto in mente nulla che non avessimo già fatto: stanze a gruppi mescolando docenti, studenti e corsi di studi, ice-breaker ed esercitazioni per cercare di costruire le premesse di una redazione, che anche a distanza deve basarsi su collaborazione e condivisione. Penso però che tenere un laboratorio a distanza non sia proponibile, specie nel lungo termine: per quanto possiamo ingegnarci, non sarà mai come un lavoro dal vivo. Se qualcuno ha qualche idea in proposito gli passo il testimone, perché, nell'eventualità peggiore, potremmo non avere scelta, e vorrei evitare di vivere con disagio una situazione che, in altre circostanze, mi avrebbe arricchito come è sempre successo fino a ora.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012