SOCIETÀ

L'America che combatte le politiche ambientali di Trump

C’è una silenziosa, ma potente, rivoluzione che attraversa gli Stati Uniti d’America. Uno scontro diretto con l’inquilino attuale della Casa Bianca e le sue politiche nel campo energetico

Una rivoluzione verde, guidata dall’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg (ora inviato speciale delle Nazioni Unite per il climate change) e dall’attuale governatore della California (Stato da sempre attento alle politiche green) Edmund G. Brown. 

Un passo indietro: uno dei primi atti di Donald Trump, pochi mesi dopo le elezioni, fu quello di recedere dagli accordi sul clima di Parigi: una scelta pesante e contro l’intera comunità scientifica mondiale, in grado di pregiudicare i già malmessi risultati che dovrebbero portare al taglio – nel 2025 (una data ormai dietro all’angolo) – delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Non un gesto simbolico: gli obiettivi – mai celati – del presidente USA erano di permettere alle industrie americane di ritornare all’uso dei combustibili fossili (petrolio e carbone) per alimentare i loro macchinari con conseguenze potenzialmente devastanti per l’aumento delle emissioni di gas serra nell’aria.

Ma qualcosa, nel meccanismo negazionista dei cambiamenti climatici dell’amministrazione Trump, si è inceppato

Contrariamente alle attese, numerosi Stati americani, città, imprese e singoli cittadini si sono messi in rotta di collisione rispetto ai disegni del governo federale. Nasce così il progetto America’s Pledge il cui sottotitolo è ambizioso: “Come gli Stati, le città e il comparto d’impresa stanno guidando gli Stati Uniti verso un futuro a basso impatto ambientale”. 

Una “coalizione d’intenti” vera e propria che ricorda come – attualmente – gli Stati Uniti siano a metà strada rispetto all’obiettivo di ridurre entro il 2025 l’emissione di CO2 del 26-28% rispetto ai valori del 2005. Ma ricorda anche che “attraverso un coinvolgimento, dal basso, di tutti i cittadini e dei principali attori economici americani è realistico diminuire  di un livello superiore al 24% le emissioni rispetto ai livelli pre-2005”. Un compromesso al rialzo. Probabilmente non si tratterebbe nemmeno di un compromesso, visto che si sarebbe in linea con gli accordi di Parigi e che le previsioni parlano di una decabornizzazione ancora più accelerata tra il 2025 e il 2030.

Come è possibile? Dal 2017 a oggi oltre 3.000 attori economici hanno dato il pieno supporto agli accordi sul clima per proseguire il loro cammino verso una politica verde, entrando a far parte del “cerchio magico” della “We Are Still In declaration” che coinvolge una estesa rete, a vari livelli, di “combattenti” contro il ritorno all’uso dei combustibili fossili.

Nel rapporto America’s Pledge si spiega come la coalizione d’intenti sia così ramificata da contenere al suo interno “oltre metà della popolazione americana” pari a circa 173 milioni di persone e “oltre metà dell’economia americana (11.400 miliardi di dollari), pari a oltre il 35% delle emissioni di gas serra insistenti sul suolo americano

 

E i risultati di queste politiche bottom-up non si sono fatti attendere: tra il 2005 e il 2016 le emissioni di CO2 nell’aria sono scese solo del 12% (la metà rispetto alle aspettative per il 2025), ma nel 2017 – nonostante la nuova spinta della Casa Bianca all’uso del combustibile fossile – gli Stati Uniti hanno registrato la più bassa emissione di gas serra degli ultimi 25 anni. “Il disimpegno delle centrali elettriche alimentate a carbone – si continua a leggere nel rapporto – sta aumentando a un ritmo più sostenuto del previsto e dal primo giugno del 2017 gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione di energia proveniente da fonti di energia rinnovabile in modo tale da poter alimentare oltre tre milioni di case all’anno”. 

A questi dati si aggiunge la dichiarazione di oltre 70 imprese americane pronte a rimanere in linea con gli accordi di Parigi.

E non è tutto: le previsioni sembrano essere rosee. Gli aderenti al programma (tra 50 Stati comprendenti le 285 maggiori città americane) dovrebbero essere in grado di tagliare le emissioni per un totale pari a 500 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2025, a patto che le implementazioni “verdi” siano soddisfatte in pieno. Sul versante cittadino, le politiche intraprese porterebbero a un aumento della domanda di energia rinnovabile (non da fonte idroelettrica) pari a 500 terawatt all’ora (TWh), abbastanza per dare luce a 56 milioni di case all’anno. Nel loro insieme, queste politiche lungimiranti porterebbero a non sperperare energia per 200 TWh all’anno entro il 2025, a implementare il parco automobili a zero emissione fino a 4 milioni di veicoli su strada e far risparmiare 36 miliardi di miglia percorse dalle auto private grazie al miglioramento complessivo del trasporto pubblico. 

Le linee guida sono tracciate: accelerare la chiusura degli impianti a carbone, incoraggiare i residenti a ristrutturare le proprie abitazioni per migliorare l’efficienza energetica, aumentare l’adozione di veicoli elettrici, diminuire drasticamente le emissioni del super inquinante idrofluorocarbone (HFCs), diminuire le perdite di metano nelle città e – soprattutto – sviluppare politiche regionali per abbattere l’uso del carbone nelle aree di lavoro. 

Una chimera? Assolutamente no. Semmai il segno che – a prescindere da politiche errate a livello nazionale – le azioni dal basso possono spingere verso obiettivi addirittura superiori a quelli previsti dagli accordi sul clima di Parigi. E non è poco, anzi.

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