SCIENZA E RICERCA

Musei di storia naturale: verso una rete globale per rispondere a ruoli nuovi

Pensare i musei di storia naturale nel mondo non come organizzazioni indipendenti, ma come parti di un tutto, che concorrono a formare un’unica grande collezione globale: secondo un gruppo di ricerca coordinato da Kirk R. Johnson, direttore dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington, è questo in futuro l’obiettivo a cui tendere, da raggiungere attraverso la condivisione dei dati e il coordinamento tra istituzioni. Oggi le informazioni relative alle raccolte esistenti sono spesso poco note e difficilmente accessibili, nonostante gli sforzi per digitalizzare il posseduto, ma l’utilità e le potenzialità che queste collezioni possono avere richiedono uno sforzo collettivo. Come primo passo verso la costruzione di una rete museale globale, gli studiosi hanno condotto un’indagine che ha consentito di quantificare il patrimonio di 73 tra i più grandi musei di storia naturale ed erbari esistenti al mondo, ricavandone una stima complessiva di circa un miliardo e 150 milioni di esemplari posseduti, suddivisi per tipologia. I risultati del progetto sono stati recentemente descritti su Science

Avere notizie sulle raccolte esistenti a livello mondiale e renderle accessibili è fondamentale per più ragioni, secondo Johnson e colleghi. I progressi nell’ambito delle tecnologie digitali, isotopiche, di imaging e genomiche, cui vanno aggiunte le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, stanno trasformando e ampliando le destinazioni d’uso delle collezioni museali di storia naturale. Queste infatti offrono non solo una testimonianza sul passato del pianeta, ma sono anche una finestra sul presente e consentono di guardare al futuro, dato che vengono sempre più utilizzate per fare previsioni inerenti la perdita di biodiversità, i cambiamenti climatici, le malattie infettive. Secondo gli autori, i musei di storia naturale sono una forma di “infrastruttura scientifica” necessaria a sostenere soluzioni a livello sociale e politico. Un esempio: nel 2018 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) per descrivere il movimento delle specie in risposta al cambiamento climatico, nello Special report sul riscaldamento globale, ha utilizzato più di 385 milioni di dati aggregati e monitorati dalla Global Biodiversity Information Facility provenienti da 5.432 enti, per lo più musei di storia naturale. 

Ma gli autori fanno anche considerazioni di altro tipo. Ricordano le origini zoonotiche di Covid-19 e sottolineano che le zoonosi rappresentano circa il 60% delle malattie umane note e il 75% delle patologie infettive emergenti: ebbene, le collezioni di storia naturale con il loro materiale biologico georeferenziato e i microbi associati (parassiti, batteri, virus) possono costituire risorse importanti in preparazione a future pandemie. E ancora, forniscono indicazioni sulla distribuzione delle specie nel tempo e nello spazio, e oggi ripetendo il campionamento negli stessi luoghi in cui è avvenuto in precedenza è possibile testimoniare i cambiamenti di biodiversità rispetto ai valori di riferimento storici.

Per tutte queste ragioni, Johnson e colleghi ritengono fondamentale la collaborazione tra istituzioni e la condivisione dei dati (open access), dal numero di esemplari posseduti, alle osservazioni tassonomiche e genomiche, fino alla letteratura pubblicata sul mondo naturale. In proposito citano iniziative come Taxonomic Databases Working Group, Global Genome Biodiversity Network, Catalogue of Life, Earth BioGenome Project, International Barcode of Life, e Biodiversity Heritage Library. Programmi nazionali che gli autori ritengono particolarmente riusciti sono invece noti come Atlas of Living AustraliaIntegrated Digitalized Biocollections negli Stati Uniti, South African National Biodiversity InstitutespeciesLink in Brasile, National Commission for the Knowledge and Use of Biodiversity in Messico.  

In vista dunque di una strutturata rete museale globale, gli studiosi hanno calcolato le dimensioni e le caratteristiche delle collezioni di 73 musei di storia naturale distribuiti su 28 Paesi, ancor prima della loro completa digitalizzazione. In Italia ha preso parte all'indagine il Museo di Storia Naturale dell’università di Firenze. Sono stati creati innanzitutto dei criteri condivisi per facilitare la raccolta dei dati e definite pertanto 19 categorie (collection types) sulla base del tipo di reperto collezionato, nell’ambito delle tradizionali aree della botanica, entomologia, zoologia dei vertebrati e degli invertebrati, paleobiologia, geologia e antropologia. Sono state individuate poi 16 zone di provenienza degli oggetti collezionati, di cui nove regioni terrestri e sette marine. I tipi di collezione e le aree geografiche così stabiliti hanno permesso di creare una tabella in cui qualsiasi reperto proveniente da qualsiasi parte del mondo trova la sua collocazione in una delle 304 celle che la compongono. La collezione di un singolo museo all'interno di una cella è stata definita dagli studiosi “unità di collezione” (collection unit): tre musei hanno segnalato più di 200 collection units, 39 ne avevano tra 100 e 199, e 29 meno di 100. Grazie alla collaborazione con i curatori dei singoli musei, è stato possibile quantificare la dimensione del patrimonio posseduto in tutte le categorie e le regioni geografiche, e questo ha permesso di realizzare immediatamente quali fossero i tipi di collezione più rappresentati e quali invece i settori più carenti, anche in vista di raccolte future.

Sono emerse lacune, ad esempio, nelle collezioni relative alle regioni tropicali e polari e ai sistemi marini. I musei possiedono pochi reperti provenienti dall’Artico e dall’Antartide, due zone invece particolarmente colpite dal riscaldamento globale. Michael J. Novacek, dell'American Museum of Natural History di New York, ha dichiarato quanto sia importante che i musei documentino la biodiversità in quelle aree per capire come sta cambiando con l’aumento delle temperature. A ciò si aggiunga che, nel complesso, i mammiferi sono studiati molto più degli insetti. “È una sorta di deficit – ha affermato Johnson –. Gli insetti sono la componente più importante della biodiversità terrestre, nonché enormi impollinatori e vettori di malattie”.

Nel corso dell’indagine, i curatori hanno fornito anche il numero di oggetti digitalizzati, la quantità di campioni di Dna e i dati relativi al personale: è significativo che solo il 16% dei reperti al momento siano stati  digitalizzati e solo lo 0,2% delle collezioni biologiche possieda dati genomici accessibili. Degno di nota, infine, il fatto che gran parte delle collezioni siano conservate da un numero molto piccolo di musei, con quelle più cospicue nelle città europee e nordamericane.

Dalle loro origini ad oggi, i musei di storia naturale hanno evidentemente mutato fisionomia e ruoli. Sorti intorno al XV secolo come stanze delle meraviglie, erano allora collezioni private di aristocratici e ricchi borghesi che conservavano preziose stranezze. Gradualmente furono aperti al pubblico e nel XIX secolo diventarono istituzioni nazionali che impiegavano curatori a tempo pieno. Oggi, dopo la nuova definizione che ne è stata data nell’Agosto del 2022 dall’International Council of Museums, “il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità […]”. I musei dunque sono luoghi che conservano ed espongono reperti provenienti da un passato più o meno lontano, e che dialogano con la società e la politica. I musei di storia naturale, in particolare, incrociano temi di forte attualità, come la biodiversità, i cambiamenti climatici, le pandemie. Condividere le informazioni, dunque, si rivela cruciale.

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