SCIENZA E RICERCA

Quanti e quali sono i suoni della primavera?

Con Primavera Silenziosa, Rachel Carson ha toccato una delle corde che più ci legano alla natura sin dall’antichità: il canto degli uccelli. Messo al bando il DDT, molte popolazioni di uccelli – compresa quella dell’aquila testabianca americana – si sono riprese. Eppure la primavera è ancora sull’orlo di diventare silenziosa. Quanti e quali suoni sono rimasti oggi alla primavera?

Cominciamo col dire che ogni ecosistema suona una sua melodia (lo abbiamo visto anche nella serie Paesaggi sonori, de Il Bo Live). Il vento tra le chiome degli alberi, un fiume che scorre, le onde che si infrangono sulla scogliera, una pigna o un seme che cade sul terreno. E poi tutti i suoni prodotti dagli animali: il canto degli uccelli, il grufolare dei cinghiali, l’ululato di un lupo, e ovviamente il ronzio degli insetti. Tutti i suoni prodotti da elementi biotici e abiotici di un ecosistema compongono una “colonna sonora” che viene definita dagli scienziati “paesaggio sonoro”. Ogni ecosistema “suona”, come fosse un’orchestra, il proprio paesaggio sonoro. Ma sempre più spesso a questa orchestra vengono a mancare degli strumenti. Man mano che una specie scompare, anche solo localmente, o la sua popolazione si riduce o si frammenta, si spezzano le corde degli archi, i tamburi perdono qualche percussione, il pianoforte qualche tasto. E l’orchestra diventa sempre più stonata e cacofonica.

Prendere la primavera come parametro per misurare la ricchezza di suoni è un’ottima idea: la primavera è la stagione del risveglio della natura. E tra uccelli migratori, sciamature di insetti, anfibi e rettili che si rimettono in attività, mammiferi e piccoli roditori che escono dal letargo invernale, la primavera offre una pluralità di voci superiore a qualsiasi altra stagione. Voci che però stiamo perdendo.

Una ricerca da poco pubblicata su Nature Communication rende bene l’idea delle dimensioni del problema. In questo studio un team di ricercatori europei ha ricostruito com’è cambiato il paesaggio sonoro negli ultimi 25 anni, in oltre 200.000 località tra Europa e Nord America. E le notizie non sono buone. I ricercatori hanno utilizzato i dati annuali di monitoraggio degli uccelli, raccolti nell’ultimo quarto di secolo nei due continenti in primavera ed estate: cioè durante la stagione riproduttiva, quando gli uccelli sono più vociferi. Hanno registrato il paesaggio sonoro attuale e lo hanno confrontato poi con quello di 25 anni fa, ricostruendolo artificialmente: hanno composto una traccia per ogni località, con le specie censite e il numero di individui contati per ognuna. Il confronto è impietoso: se 25 anni fa l’orchestra era ricca di strumenti (specie) e di musicisti (individui per ogni specie), oggi appare scarna, svuotata dal declino continuo e diffuso della biodiversità su scala globale. Il paesaggio sonoro di oggi è diverso da quello di 25 anni fa in ciascuna località: è meno ricco di suoni e più silenzioso. O con alcuni strumenti sgraziati che hanno preso il sopravvento. Sono diminuite specie dal canto melodioso come l’allodola o l’usignolo, che hanno ispirato schiere di poeti, scrittori e musicisti, mentre dalla sono aumentate di numero specie opportuniste e dalla voce rauca e sgraziata, come corvidi e gabbiani.

L’ammontare di questa perdita ha numeri da capogiro. Secondo le più recenti stime dal 1980 a oggi, l’Europa avrebbe perso quasi un quinto dei suoi uccelli nidificanti: tra i 560 e i 620 milioni di individui. Una vera e propria ecatombe silenziosa venuta a galla solo grazie allo studio condotto dalla Royal Society for the Protection of Birds, che ha analizzato le stime di abbondanza delle popolazioni di 378 specie nel nostro continente. I più colpiti – a sorpresa – non sono state le specie rare e già in difficoltà, ma piuttosto specie molto comuni. Il passero domestico (Passer domesticus), per esempio, ha perso ben 247 milioni di individui negli ultimi 40 anni. L’argento sul podio di questa triste classifica spetta invece alla ballerina gialla (Motacilla cinerea) con 97 milioni di individui in meno, seguita dallo storno con 75 milioni e dall’allodola (ancora cacciabile) con 68 milioni di individui in meno.

I motivi della perdita di queste voci sono diversi e intrecciati tra loro in una sorta di domino infernale, in cui ogni tessera ne porta giù con sé un’altra: cambiamenti climatici, inquinamento, perdita e distruzione dell’habitat, e per molti la modifica delle pratiche agricole tradizionali e l’uso di pesticidi. Il DDT, infatti, non è l’unico pesticida sul banco degli imputati. Negli ultimi anni l’attenzione è stata rivolta ai neonicotinoidi: una classe di insetticidi neuroattivi chimicamente simili alla nicotina, sviluppati a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 proprio per sostituire il DDT. L’Unione Europea e alcuni paesi limitrofi hanno prima limitato (nel 2013) e poi vietato, nel 2018, l’uso di tre neonicotinoidi (il clothianidin, l’imidacloprid e il thiamethoxam) per i loro effetti avversi su insetti impollinatori come api e bombi, e in seconda battuta sugli uccelli.

Oggi i campi coltivati degli Stati Uniti sarebbero 48 volte più tossici per gli insetti rispetto a 25 anni fa. E il 92% di questo aumento di tossicità sarebbe attribuibile unicamente ai neonicotinoidi, secondo una ricerca pubblicata su PLoS One. Quella che sembrava una soluzione al bando del DDT, di fatto si sta rivelando un nuovo fallimento. E si sta scoprendo che i neonicotinoidi hanno determinato anche un declino delle popolazioni ornitiche. Negli Stati Uniti, tra il 2008 e il 2014, questa classe di pesticidi è stata responsabile della diminuzione di un 3-4% annuo degli uccelli che nidificano in pascoli e praterie e degli uccelli insettivori, come si legge su Nature Sustainability. Altri studi hanno invece confermato che i neonicotinoidi determinano inappetenza negli uccelli e spingono alcune specie, come il passero corona bianca americano, a ritardare la tabella di marcia in migrazione. O ancora, che le concentrazioni di imidacloprid in acqua determinano un rapido crollo del numero di uccelli insettivori nell’area: con più di 20 nanogrammi di imidacloprid per litro nelle acque superficiali, le popolazioni di uccelli tendono a diminuire del 3,5 % in media all’anno.

Il primo campanello d’allarme per i neonicotinoidi, dicevamo, è suonato con le api mellifere e altri insetti impollinatori: questi pesticidi sono responsabili del collasso di intere colonie di api mellifere. Un danno di cui ci si è resi conto subito, visto che è una specie ampiamente allevata dall’uomo. Non va meglio però alle api selvatiche e a tantissimi altri insetti volatori, minacciati da specie aliene, da nuovi e vecchi parassiti, dalla modifica delle pratiche agricole, dall’inquinamento, dall’urbanizzazione e dai cambiamenti climatici. Anche gli insetti volatori partecipano, con il loro ronzare, alla colonna sonora della primavera. E anche loro sono strumenti e musicisti che stiamo perdendo a un ritmo vertiginoso: tanto da parlare di “ecatombe” degli insetti.

Il nodo è venuto prepotentemente a galla nel 2017, quando uno studio condotto nelle riserve naturali della Germania ovest ha messo sul piatto un dato sconcertante: in queste aree, la biomassa di insetti volanti sarebbe diminuita del 76% negli ultimi 27 anni. Fortunatamente – si fa per dire – questo tasso è un’eccezione. Tuttavia, nonostante una storia evolutiva di oltre 400 milioni di anni, gli insetti sono in forte declino su scala globale. Un numero speciale di PNAS, pubblicato questo gennaio, conferma che molte popolazioni di insetti – terrestri e volatori – stanno già calando al ritmo preoccupante dell’1-2% all’anno. Intorno agli stessi numeri ruotano anche le conclusioni di un’imponente meta-analisi pubblicata su Science, che ha passato in rassegna 166 studi di lungo periodo sull’abbondanza degli insetti in quasi 1.700 luoghi del pianeta. Secondo i dati, in media, il numero totale di esemplari nelle popolazioni di insetti terrestri diminuisce dello 0,92% all’anno: il 24% in 30 anni.

Infine, un altro coro primaverile che si sta velocemente silenziando è quello degli anfibi. Si calcola che delle 85 specie europee il 60% circa sia in rapido declino come numero di esemplari, e non va meglio su scala globale. Secondo la Red List IUCN il 40% di tutte le specie di anfibi sono minacciate di estinzione a vario titolo, per la perdita dell’habitat, l’inquinamento, le malattie, le specie aliene invasive, il commercio illegale e ovviamente il cambiamento climatico.

Sono numeri preoccupanti, che ci raccontano di una primavera che diventa ogni anno più silenziosa. Questi sono solo pochi esempi in un mare di voci, che dagli abissi ai cieli, si sta silenziando sempre più. Mentre un costante brusio di fondo, inesorabile, va a sostituire strumenti e musicisti dell’orchestra della natura: è il rumore antropogenico, tanto intenso e costante che sempre più spesso sfocia nell’inquinamento acustico.

Studiare e tutelare la melodia della natura è un modo per conservare la natura. Il silenzio, invece, è il canarino nella miniera che ci avverte di quello che stiamo perdendo, ma solo se siamo disposti ad ascoltare. E se siamo disposti a ricordarci che stiamo giocando a un pericoloso Jenga: più mattoncini tiriamo via dalla torre della biodiversità, più mettiamo a rischio la sua tenuta, e con essa, la nostra vita su questo pianeta.

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