SOCIETÀ

Il Regno Unito alle urne è pronto a voltare pagina

Sembra una partita già chiusa, e in parte è vero: troppo ampio il divario nei sondaggi (42% al Partito Laburista, 20% ai Conservatori) per aspettarsi un qualche colpo di scena dalle elezioni generali che si terranno giovedì prossimo, 4 luglio, nel Regno Unito. Il 10 di Downing Street cambierà inquilino, e con ogni probabilità l’incarico di primo ministro, dopo 14 anni ininterrotti di dominio Tories, toccherà a sir Keir Rodney Starmer, avvocato classe ’62, astro nascente del Labour nonostante sia approdato alla politica non da ragazzino, nel 2015. Eppure il passaggio di consegne resta sotto diversi aspetti un salto nel vuoto per la Gran Bretagna, reduce da anni di “eccessi” che hanno portato a una sempre più marcata polarizzazione della politica. A partire dalla Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, dal mercato unico e dall’unione doganale, proposta e votata probabilmente con un eccesso di leggerezza e un esplicito desiderio di “rompere gli schemi”, e che ancora oggi, dopo 8 anni da quel voto, continua a rimanere una delle pagine più controverse della storia politica britannica. I Laburisti stanno per essere chiamati a una prova di responsabilità e di credibilità dopo tanti anni passati all’opposizione: e il loro compito sarà tutt’altro che semplice, visto lo stato in cui versano i conti pubblici. Mentre i Conservatori sperano di non precipitare troppo nei consensi e di conservare almeno un minimo di fiducia elettorale per tentare di costruire da lì un percorso di rinascita, dopo le disastrose esperienze inanellate dagli ultimi leader: Boris Johnson (accusato non soltanto di aver organizzato feste durante il Covid e di aver mentito al Parlamento, nel cosiddetto scandalo Partygate, ma anche di aver lavorato “contro” l’unione del Regno e di aver favorito le spinte indipendentiste della Scozia e dell’Irlanda del Nord); Liz Truss, rimasta in carica appena 45 giorni, dopo che il suo drastico taglio alle tasse dei più ricchi ha fatto crollare la sterlina ai minimi storici (The Independent l’ha definita “incompetente”); e il primo ministro uscente, quel Rishi Sunak che si è intestardito nel perseguire alcuni punti del suo programma, isolando ancor di più il paese di fronte al montare delle critiche degli organismi internazionali. Uno su tutti:l’espulsione forzata dei migranti, con un biglietto di sola andata per il Rwanda. Un piano che piace molto alle destre, ma che viene definito dai suoi detrattori come “disumano e impraticabile”, oltre che in contrasto con le norme del diritto internazionale.

Le vere questioni sul tavolo: welfare, sanità, ambiente

Il problema è che il Regno Unito e i suoi abitanti avrebbero ben altri problemi di cui occuparsi: e quando i politici si occupano di questioni che i cittadini non “sentono”, quando c’è una così netta “dissonanza di urgenze”, è sempre un pessimo segnale. Che certo non aiuta a sopire quelle tensioni interne che in questi ultimi dieci anni si sono moltiplicate e che potrebbero portare, in tempi relativamente brevi, alla “disintegrazione del Regno Unito”, stando alla definizione offerta già diversi anni fa dal Centro di analisi Carnagie Europe. Che scriveva: «Soltanto un giocatore coraggioso scommetterebbe sul fatto che la Scozia e l’Irlanda del Nord apparterranno ancora al Regno Unito nel 2040». Si vedrà se la previsione sarà azzeccata.

Tra le grandi questioni sul tavolo c’è sicuramente l’economia, provata sia dalle conseguenze della Brexit, sia dagli effetti della pandemia e della guerra in Ucraina, oltre che dalle politiche spesso scellerate attuate dagli ultimi governi conservatori. Un’economia che ha dovuto affrontare anche una recessione alla fine del 2023: e questo ha complicato la vita di molte famiglie britanniche, alle prese con un’inflazione in altalena (dall’11% della fine del 2022 al 2% attuale). Ma i prezzi al consumo sono aumentati di oltre il 20% negli ultimi 3 anni, il che ha spinto verso la soglia di difficoltà migliaia di famiglie. Lo scorso marzo la Bbc riportava dati preoccupanti: «La crisi dei prezzi dell’energia ha causato il più forte aumento della povertà assoluta nel Regno Unito negli ultimi 30 anni, che ora si attesta al 18%». Si tratta di circa 12 milioni di persone (su una popolazione complessiva di quasi 68 milioni) calcolate nel biennio 2022-2023. La Joseph Rowntree Foundation, un’associazione non governativa che si occupa di misurare la povertà nel Regno Unito, ha fotografato così l’attuale situazione: «Nel mese di ottobre 2023, circa 2,8 milioni di famiglie erano in arretrato con le bollette domestiche o in ritardo con i rimborsi programmati dei prestiti; 4,2 milioni di famiglie sono rimaste senza beni di prima necessità; 3,4 milioni di famiglie hanno riferito di non avere abbastanza soldi per l’acquisto del cibo». La stessa associazione, nella sezione “cosa si può fare” del suo ultimo report, ricorda alcune regole base da seguire: «Per un tenore di vita dignitoso, tutti abbiamo bisogno di sicurezza e stabilità nelle nostre vite: un alloggio sicuro, un reddito affidabile e sostegno quando le cose si fanno difficili. Per troppi di noi, non c'è questa sicurezza. Milioni di persone nel Regno Unito stanno lottando per tirare avanti, conducendo vite insicure e precarie, trattenute dal migliorare i loro standard di vita. È tempo di agire contro la povertà e di porvi rimedio». Nel concreto: «Rendere il lavoro “possibile e desiderabile” per coloro che sono al di fuori del mercato del lavoro; garantire un reddito sufficiente per permettersi l’essenziale; forgiare una “rete di sicurezza sociale” di sostegno in caso di crisi, aiuto pratico e connessione nelle comunità delle persone; ampliare l’accesso a case sicure, sia in affitto che di proprietà».

Insomma: una riforma del sistema di welfare sarebbe necessaria. Eppure le proposte dei partiti restano, sul punto, piuttosto vaghe. Come anche resta drammaticamente aperta, nonostante le reiterate promesse,  l’annosa questione delle liste d’attesa che affligge il National Health Service (Nhs), la sanità pubblica e gratuita del Regno Unito (si stima che a fine aprile 6,33 milioni di pazienti fossero ancora in attesa di accedere a visite e cure di ogni genere, compresi i malati oncologici). Con la British Medical Association che testimoniacome l’80% dei medici di base restino disoccupati o sottoccupati, nonostante la fortissima domanda di cure di base (i GP, general practitioners, restano il primo “punto di contatto” tra pazienti e sistema sanitario nazionale). Le aree più colpite dalla disoccupazione dei medici di base sono le Midlands e l’Inghilterra settentrionale. Un altro “buco nero” della politica britannica è l’ambiente, con il Primo Ministro conservatore Sunak che, riproponendo uno slogan tanto di moda nelle destre europee («dobbiamo combattere il cambiamento climatico senza penalizzare lavoratori e consumatori») ha posticipato di cinque anni (dal 2023 al 2035) la scadenza per porre fine alla vendita di veicoli alimentati a benzina e diesel, attirando anche le critiche di diverse case automobilistiche, approvando al tempo stesso nuove trivellazioni nel Mare del Nord alla ricerca di petrolio e gas.

Il populista Farage divide il centrodestra

È per tutto ciò, per aver scelto di attuare queste politiche e con questi protagonisti, che i Conservatori sono precipitati nei sondaggi a un minimo storico che qualcuno si spinge a leggere come “un punto di non ritorno”. Aggravato peraltro dall’ultimo scandalo che ha travolto i Tories, con diversi parlamentari sorpresi a piazzare scommesse sulla data esatta delle elezioni generali prima che fossero indette dal primo ministro (compreso il direttore delle campagne elettorali dei conservatori, Tony Lee, e sua moglie, Laura Saunders, anche lei candidata). Il che la dice lunga non soltanto sullo spessore morale degli aspiranti parlamentari, ma anche sulla “leggerezza” con cui quegli stessi candidati vengono valutati e scelti (un tema, questo, di enorme portata che non riguarda soltanto il Regno Unito).

Tornando alla competizione elettorale: terzo partito in lizza nelle intenzioni di voto dei britannici è Reform UK, di estrema destra, guidato da Nigel Farage, il populista dichiaratamente euroscettico che nel 2016 fu l’architetto dell’operazione-Brexit. Farage è stato una figura dirompente per la politica britannica, pur non avendo mai tradotto in seggi parlamentari il sostegno raccolto dal suo partito, penalizzato in questo dal meccanismo del sistema elettorale maggioritario britannico. La sua candidatura, annunciata all’ultimo minuto, è vista come “alternativa” ai Conservatori, e quindi assai dannosa per le ambizioni di Rishi Sunak. I temi sono simili, ma con qualche distinzione. Reform Uk, ad esempio, vorrebbe bloccare l’immigrazione non essenziale, ma garantisce che ci sarebbero eccezioni in alcuni settori considerati essenziali, come quello della sanità. Farage è accreditato oggi del 17% dei voti: il suo sogno sarebbe sopravanzare i Conservatori e affermarsi come seconda forza del paese. Più indietro i Lib Dems (Liberal-Democratici, con l’11%) e i Verdi (6%). Mentre lo Scottish National Party (SNP), i nazionalisti scozzesi, tenaci sostenitori del rientro della Scozia nell’Unione Europea, sono accreditati di un 3% complessivo. John Swinney, leader dell’SNP e primo ministro scozzese, continua a battere sul tasto della Brexit: «Ha contribuito in modo significativo all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e ha spazzato via miliardi di sterline dall’economia rispetto a quando c’era l’appartenenza all’UE», ha scritto Swinney in una sorta di manifesto elettorale. «Meno soldi nella nostra economia significa meno entrate fiscali che avrebbero potuto essere spese per il servizio sanitario. Lo Scottish National Party sta offrendo un futuro diverso: vogliamo che la Scozia torni nell’UE il prima possibile e vogliamo che il Regno Unito abbia le relazioni più strette possibili con l’Europa: questo è nel nostro interesse».

Resta da capire se il Labour, e in particolar modo Keir Starmer, riusciranno a rappresentare la giusta risposta al cambiamento che i cittadini del Regno Unito ormai chiedono a gran voce. Starmer da un lato ha già promesso che ribalterà la strategia industriale del paese, e dunque l’economia, con l’istituzione di un fondo patrimoniale nazionale da 7,3 miliardi di sterline di denaro pubblico (circa 9,2 miliardi di dollari) che aiuterà il paese a “pagare” la transizione verso il traguardo delle “emissioni nette zero” nella rete energetica del Regno Unito entro il 2030 grazie alla costituzione della Great British Energy, che avrà sede in Scozia e investirà in energia pulita. Ma ha anche annunciato una riduzione del budget di spesa destinato agli investimenti green, da 28 miliardi di sterline l’anno a circa 15. La Cnn riassume così il manifesto del Labour: «È un mix di modesto centrismo mescolato a socialismo morbido. Comprende l’imposizione di tasse alle scuole private per aiutare a pagare l’istruzione statale e prelievi straordinari sulle società energetiche per finanziare ulteriormente la transizione verso l’energia pulita. Ci sono anche impegni sui diritti dei lavoratori, sulla riduzione delle liste d’attesa per l'assistenza sanitaria e anche sul controllo dell’immigrazione. I critici di destra dicono che Starmer avrà bisogno di aumentare le tasse per finanziare i suoi piani; mentre gli scettici di sinistra dicono che il suo manifesto non è abbastanza audace o ambizioso da cambiare il Regno Unito in meglio».

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