SOCIETÀ

La Turchia adesso vuole dominare il mare

Il 7 ottobre 1571 la flotta ottomana veniva sconfitta vicino a Lepanto dalla Lega Santa: una data assurta nei secoli a simbolo del declino della potenza turca sui mari. Ora però Ankara è stufa di essere considerata solo una potenza terrestre: è di queste settimane l’escalation di tensione nel Mediterraneo orientale che la vede contrapposta alla Grecia e alla Repubblica di Cipro, le quali hanno incassato l’appoggio diplomatico e militare dell’Italia e soprattutto della Francia. Sul piatto c’è il dominio delle rotte e delle risorse della zona, in cui negli ultimi anni sono stati scoperti anche importanti giacimenti di idrocarburi.

Una tensione che segna l’ennesima sfida da parte di Erdoğan all’ordine internazionale, minacciando di minare le stesse basi dell’Alleanza Atlantica. “Credo che i fattori che stanno determinando la crisi possano essere posti su tre livelli: nazionale, regionale e globale”, spiega Carlo Pallard, studioso presso l’università di Torino e autore del recente libro Turchia. Dai generali a Erdoğan 1960-2020 (Eiffel edizioni 2020). “C’è innanzitutto la situazione interna della Turchia, tutt’altro che immobile nonostante 20 anni di dominio dell’Akp e di Erdoğan. A livello regionale c’è poi l’annoso problema con la Grecia sulla definizione delle rispettive zone esclusive economiche per lo sfruttamento delle risorse, mentre con Cipro invece si tratta di una vera e propria questione di acque territoriali con la Repubblica di Cipro Nord, riconosciuta solo da Ankara. Infine la situazione è complicata dall’atteggiamento attendista di Stati Uniti e Russia, che al momento sembrano respingere un coinvolgimento diretto nei conflitti della regione”.

Intervista a Carlo Pallard di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello

Le tensioni nell’area non sono una novità: a metà degli anni ‘70 le forze armate turche invasero la parte nord di Cipro, mentre all’inizio degli anni ’80 furono stabilite le zone economiche esclusive; i cambiamenti degli ultimi mesi, a giudizio dello studioso, riguardano soprattutto gli altri due livelli, nazionale e globale. Questa aggressività da parte di Erdoğan va interpretata come segno di forza o di debolezza? “Farei attenzione a considerarlo l’unico protagonista – continua Pallard –. Per comprendere la situazione attuale tornerei al 2016, quando pochi mesi prima del tentativo di golpe si dimette Ahmet Davutoğlu, prima ministro degli esteri e poi premier, nonché grande architetto della cosiddetta ‘dottrina della profondità strategica’. Questa strategia naufraga con il fallimento della scommessa sulle primavere arabe: da allora la Turchia cambia la sua politica regionale e abbraccia progressivamente la dottrina della cosiddetta ‘patria blu’ (Mavi Vatan)”.

Questa visione prende il nome da un libro dell’ex ammiraglio Cem Gürdeniz, mai stato erdoganiano ma anzi da sempre vicino ad ambienti kemalisti di sinistra, anche estrema. “Nella sua visione la Turchia deve cambiare stile e politica – prosegue lo studioso –, diventare più assertiva e attuare una politica di potenza che possiamo definire revisionista, nel senso che mira a modificare lo status quo nel Mediterraneo. Un obiettivo che, secondo Gürdeniz, può essere perseguito attraverso l’utilizzo spregiudicato di risorse diplomatiche ma anche della forza militare, sia come deterrente che come strumento per inserirsi in conflitti a bassa intensità”.

"Mavi Vatan" (Patria blu) prende il nome da un libro dell'ex ammiraglio Cem Gürdeniz. Secondo questa dottrina la Turchia deve mirare un'area d'influenza con la forza navale

L’obiettivo è creare uno spazio di egemonia economica e politica che, appoggiandosi in particolare alla marina da guerra, si estenda dagli stretti del Mar Nero al canale di Sicilia e indirettamente anche a quello di Suez: “Non è un caso che anche l’Egitto si senta minacciato, e tenti in ogni modo di contrastare questa strategia”. Una dottrina che quindi non viene da ambienti islamisti e conservatori, non è apparentemente ideologica bensì pragmatica e – a differenza di neoottomanesimo, islamismo e panturchismo – più che su principi religiosi e culturali si fonda su nazionalismo e forza militare. “Del resto fu lo stesso Mustafa Kemal, il fondatore della Turchia moderna, a scrivere che i confini della patria ‘sono là dove arrivano le baionette’ – spiega Pallard –. Un nazionalismo statocentrico e territoriale rimasto molto forte in certi settori kemalisti delle forze armate, che all’inizio avversavano Erdoğan ma che dopo il fallimento del golpe sono in qualche modo tornati organici al regime, in una strana e bizzarra commistione tra sinistra ed estrema destra che del resto in questi tempi non è così inusuale neanche in altre parti del mondo”.

Come si lega questa nuova aggressività con altri atti dalla forte carica simbolica, come la recente riconversione in moschea di Santa Sofia? “In quel caso si tratta di una scelta covata a lungo e condivisa da una larga parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche, da quelle islamiste a quelle nazionaliste. Non c’era assolutamente bisogno di una moschea in più: bisognava però dare un contentino alle fazioni più conservatrici della società turca, che negli ultimi tempi temevano di aver perso un po’ della loro centralità. Si pensi che alcuni chiedono ancora oggi riferimenti espliciti all’Islam nella costituzione”.

Il quadro insomma è al momento ancora confuso, anche per l’Italia: “Il paradosso è che in Libia e nel Corno d’Africa i nostri interessi sono più vicini a quella della Turchia, mentre nell’Egeo e per Cipro siamo dalla parte di Grecia e Francia”. Una situazione strana che in parte si spiega con l’inazione di Roma, e che però prima o poi potrebbe tornare anche a nostro favore: “Credo che non tutto sia perduto per l’Italia. La Turchia oggi sembra dilagare ma sta creando parecchia tensione negativa intorno a sé, che la isola e la porta in rotta di collisione con altri Stati. Dall’altra parte c’è l’avventurismo della Francia che però, come abbiamo visto in Libia, ogni tanto può avere esiti disastrosi. La politica di potenza messa in atto da Macron è quasi speculare rispetto a quella di Erdoğan”. In questo paradossalmente l’Italia può ottenere qualche vantaggio: “Non ha un curriculum macchiato da azioni avventuristiche finite male e ha comunque un peso economico e istituzionale, un know how sufficiente per garantirsi uno spazio di manovra senza che altri si sentano troppo minacciati. Non abbiamo fatto passi più lunghi della gamba e finora non abbiamo alimentato la crisi. Ci penserei, è l’unica cosa che ci resta”.

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