SOCIETÀ

Quanto è lontano il 1989

Nel dopoguerra, l’Ungheria e i suoi cittadini erano separati dall’Austria, e quindi dall’Europa, con un muro di filo spinato lungo 260 chilometri. Sono passati solo 27 anni da quando, il 26 giugno del 1989, il muro venne finalmente reciso e le frontiere aperte: cominciava l’esodo verso Ovest che avrebbe condotto, pochi mesi dopo, al crollo del più simbolicamente importante muro di Berlino e, due anni più tardi, sarebbe stata la stessa Unione Sovietica a scomparire.

Oggi il governo di Viktor Orbàn, dopo aver sigillato il confine con la Serbia con una rete metallica di circa 175 km (e un’altra è prevista con la Croazia), ha promosso e perso un referendum, il 2 ottobre, che chiedeva ai cittadini ungheresi di esprimersi sul seguente quesito: ‘Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?’.

La domanda, naturalmente, era capziosa: Orbàn aveva chiamato gli ungheresi al voto per legittimare l’opposizione del suo governo alle quote di ripartizione previste dalla Unione Europea: 1.294 migranti per un paese di quasi dieci milioni di abitanti. Come è noto il referendum non ha raggiunto il quorum del 50% previsto dalla legge ungherese e dunque è da considerarsi invalidato, anche se Orbàn ha affermato che nulla cambierà nella sua politica anti-immigrazione, che prevede modifiche costituzionali in questo senso. Evidentemente il rispetto delle regole, l’aver perso in questo caso, per lui è solo un modo di dire. Si potrebbe aggiungere che la costituzione ungherese, liberale e laica, scritta dopo la fine del regime comunista è già stata modificata in senso fortemente conservatore in nome della triade «Dio, Patria e Famiglia» e la deriva anti-immigrazione ne è un corollario perfetto. 

Ma l’Ungheria non è un caso isolato: al contrario possiamo notare un simmetrico capovolgimento dell’atteggiamento occidentale verso i muri. Se i leader politici europei e americani, un tempo, esigevano lo smantellamento delle barriere che impedivano a ungheresi e tedeschi di spostarsi, oggi l’Europa torna a costellarsi di recinzioni che, come scrive Claude Quétel nel suo libro Muri. Una storia fatta dagli uomini (Bollati Boringhieri), hanno tutte il medesimo significato, quello di essere accomunate “dalla caratteristica di essere muri “politici” nel senso più generale del termine, di fare atto d’autorità, controllare, creare limiti, escludere, vietare”. Non a caso in questi mesi nuovi muri vengono costruiti un po’ ovunque: dal muro che sta nascendo a Calais, in Francia, a quello sul confine bulgaro-turco, da quello spagnolo dell’enclave di Melilla in territorio marocchino al probabile muro austriaco sul Brennero. 

Che siano di cemento, di mattoni, di filo spinato o di lamiera metallica sagomata, come quello tra Stati Uniti e Messico, i muri rappresentano la più vistosa contraddizione all’interno dell’Europa. Il muro come esclusione, divisione e separazione materializzata sembra essere il simbolo dell’incapacità dell’Europa di attuare politiche strategiche e creative per governare i movimenti migratori. Di fronte a questa incapacità, alcuni Stati dell’UE, sulla spinta di movimenti xenofobi, agiscono nel modo più rozzo e cioè sigillando i loro confini: Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca sono su questa lunghezza d’onda. Viene in mente lo splendido libretto di Istvàn Bibò Miseria dei piccoli stati dell’Europa orientale

Non c’è solo l’Europa, naturalmente. Nella sua campagna elettorale Donald Trump ha più volte affermato che è necessario aggiungere altre miglia di muro, oltre a quelle già esistenti, al confine tra Stati Uniti e Messico, fingendo di credere che l’America sia assediata da milioni di migrantes messicani. 

Il libro di Quétel, che ha in copertina l’antichissima muraglia cinese, ci ricorda che migranti, profughi, rifugiati, alla fine sono parole riduttive per designare esseri umani che fuggono da situazioni economiche drammatiche (i conflitti regionali sono solo uno dei fattori), verso condizioni dove si possa sfuggire a morte sicura e, forse, vivere dignitosamente. La risposta dei governi oggi è un’Europa-bunker, che ridisegna confini e frontiere nel nome dell’impenetrabilità, e si dichiara del tutto incapace di comprendere e governare con efficacia le cause che sono alla base delle migrazioni. Mentre alle frontiere d’Europa un’umanità, espulsa dal disordine globale, si accalca e staziona in forme di vita che rischiano di diventare permanenti, come quelle dei centri di accoglienza, le istituzioni della UE sembrano assolutamente inette nel formulare politiche di accoglienza che intreccino sicurezza e solidarietà.

Sebastiano Leotta

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