CULTURA

Aiutati che Dio t’aiuta. Il self–help in tempi di crisi

Nel pieno di una recessione di cui non si vede la fine, e che ha colpito pesantemente anche il mercato del libro, fra i generi che resistono e che conquistano posizioni sempre più visibili sugli scaffali c’è, non sorprendentemente, la letteratura di self-help. Affermazione, futuro, successo sono i termini che più frequentemente spiccano a caratteri cubitali nei titoli di questi manuali che si stagliano con prepotenza sugli scaffali delle librerie; testi che si propongono di insegnare a qualsiasi lettore a confidare esclusivamente, per la corsa al successo, nelle proprie forze e nella propria azione, senza nutrire alcuna illusione verso l’aiuto altrui e nella società. È un filone che sembra fatto apposta per stimolare autori conosciuti, dal successo consolidato, a inserirvisi puntando su originalità e attualità per sfruttarne la fortuna, e a cui si aggiungono così sempre nuovi titoli; ma questo genere di veri e propri best-seller di consumo conta su una lunga tradizione, che risale al XIX secolo, e ha una storia significativa. 

La “letteratura di successo” come la conosciamo oggi nasce infatti in un clima culturale preciso, quello dell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento, forte della supremazia ottenuta in seguito alla rivoluzione industriale e alle conquiste coloniali che l’avevano portata a dominare su un terzo delle terre emerse e un quarto della popolazione mondiale. In quegli anni la Gran Bretagna conobbe una vera e propria proliferazione di queste opere sulla scia dei fortunatissimi libri di Samuel Smiles (1812-1904). Giornalista e politico scozzese, autore di numerosi saggi di auto-aiuto, Smiles (tradotto in Italia fin dal 1865) fu il principale sostenitore di quell’idea, fortemente individualista, secondo la quale esercitando la propria forza di volontà, la propria integrità morale e una strenua dedizione al lavoro anche il più umile lavoratore sarebbe in grado di innalzare le proprie sorti e conseguire ricchezza e successo. La sua tesi di fondo, ovvero che le istituzioni, la società e i condizionamenti della realtà esterna influiscano soltanto in minima parte nel determinare le condizioni sociali ed economiche del singolo, venne a costituire la base ideologica della letteratura self-helpista.

Altra figura chiave della diffusione del self-help e sostenitore di questa logica individualista e ottimista è senza dubbio, due generazioni dopo e sull’altra sponda dell’atlantico, Dale Carnegie (1888-1955); scrittore e insegnante statunitense, a partire dal 1912 si fece promotore a New York di alcuni corsi di effective speaking e human relations. Il suo testo più noto è Come trattare gli altri e farseli amici, pubblicato per la prima volta nel 1937, tradotto in Italia da Bompiani, e destinato a diventare uno dei più grandi best-seller della letteratura sullo sviluppo personale con oltre 30 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Carnegie, che scrisse inizialmente questo libro per i suoi corsi professionali, si era reso conto del fatto che, per affermarsi nel mondo degli affari come in qualunque altra attività, sono necessari non solo talento e virtù individuali ma anche l’abilità di persuadere e la capacità di interazione con il prossimo; Come trattare gli altri e farseli amici è un’opera articolata sistematicamente nella quale l’autore fornisce principi dell’arte di convivere con il prossimo, naturalmente a proprio vantaggio e grazie alle proprie abilità, condensati in massime come: “Siate prodighi di apprezzamenti onesti e sinceri”, “Parlate di quello che interessa agli altri”, “Considerate i benefici che l’altra persona vuole ricavare”.

Storia di ieri? Non esattamente: nel 2012 la Dale Carnegie & Associates ha pubblicato Come trattare gli altri e farseli amici nell’era digitale, subito tradotto in italiano; il libro si propone di dimostrare come nell’ambito della comunicazione oggi, nonostante le distanze siano state notevolmente ridotte e l’interazione relazionale si avvalga sempre più spesso di veicoli digitali modernissimi e in parte “impersonali”, quali Facebook, Twitter, Skype, i precetti del bestseller di Carnegie continuino ad essere assolutamente attuali e validi.

Si inserisce in questo filone, confermandone le caratteristiche fondamentali, anche l’ultimo libro del giornalista e scrittore Beppe Severgnini, Italiani di domani. Otto porte sul futuro (Rizzoli, 2012). Scritto in uno stile a metà fra un saggio scorrevole e una guida pratica, il libro si articola in otto passaggi “semplici e concreti”, le otto “T” che, secondo l’autore, accompagneranno la nuova generazione nel cammino verso il futuro e il successo. Nonostante nasca da una serie di conferenze tenute nelle università, Italiani di domani non è indirizzato ai giovani, o meglio, non solo. Numerosi i consigli impartiti dall’autore, il cui tono assume per lo più le caratteristiche di una conversazione colloquiale condita a tratti da una buona dose di ironia, fra cui quello di intraprendere un’analisi accurata di se stessi per scovare i propri talenti e valorizzarli.

A quella generazione degli anni ’80 che si ritrova ad avere “fra i piedi un po' di sessantenni rassegnati, di cinquantenni opportunisti” si ricorda che scuole e università continuano a rappresentare due contesti di fondamentale importanza per dare inizio a questo lungo lavoro di perfezionamento delle proprie abilità e competenze. Cercare di affermare le proprie ambizioni significa anche affacciarsi al precario mondo lavorativo in maniera credibile, vantando una preparazione quanto più tecnica possibile e mostrandosi informati. E bisogna mantenersi disponibili al cambiamento, con studi universitari lontano da casa o compiendo esperienze formative all’estero, per cambiare prospettive e abitudini.

Cambiano i tempi e i luoghi, cambiano le modalità di comunicazione e la prospettiva, non più solo nazionale, ma il solco della letteratura motivazionale rimane chiaramente riconoscibile: anche Italiani di domani condivide la concezione di fondo secondo cui è possibile scovare le chiavi del futuro esclusivamente nelle proprie qualità individuali: talento, tenacia, tempismo, tolleranza... attitudini del singolo, coltivando le quali le porte sono aperte. Quello che è cambiato, è la coloritura emotiva del contesto, che nell’Italia di oggi è sensibilmente diversa da quella che ha visto la nascita della letteratura self-helpista. E da questo clima viene il passaggio forse più spiazzante, perché più aperto e problematico, del libro. Se Cesare Pavese scriveva in I mari del Sud che “la vita va vissuta lontano dal paese; si profitta e si gode e poi, quando si torna si trova tutto nuovo”, Severgnini esorta a fare altrettanto: “La provincia è bella e consolante… è un luogo dove si confezionano miti… Tenetela da conto, se ci siete nati e cresciuti. Scappate per tornare. Però, prima, scappate”. È una parola sola, ma basta a portare, in un attimo, lontanissimi dalla fiducia che le virtù dell’io siano sufficienti, da sole, a risolvere ogni problema.

Teresa Bovo

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