CULTURA

Creativi si diventa: l’industria cinese della cultura

Una moltitudine di lavoratori a basso costo, con competenze limitate, esigenze modeste e capacità di sopportare condizioni di vita durissime. Lo stereotipo della Cina del miracolo è questo. Per quanto i media dipingano, anno dopo anno, un affresco sempre più composito e problematico dei mutamenti sociali nella Repubblica Popolare, molti insistono a immaginare una realtà monolitica, in cui la maggioranza della popolazione è composta da “macchine da lavoro” sfruttate senza particolari resistenze, pressate dalla necessità di sopravvivere e, insieme, da un’innata sudditanza alle gerarchie.

Per sfuggire alle caricature e cogliere gli aspetti reali delle grandiose trasformazioni in atto nel Paese può essere utile recuperare, tra i molti contributi, La testa del drago. Lavoro cognitivo ed economia della conoscenza in Cina, una raccolta di saggi curata qualche anno fa da Gigi Roggero (Ombre Corte). Cinque studiosi di diverse discipline (sociologia, antropologia, geografia umana), in prevalenza di origini asiatiche e docenti presso atenei americani, raccontano aspetti diversi del panorama economico e sociale che caratterizza la Cina di oggi, accomunati da uno sguardo antiretorico e, senza nasconderlo, nettamente schierato. L’assunto, che il titolo del libro suggerisce, è che a Pechino si stia ormai superando il modello di potenza economica basata sulla mera capacità di riproduzione, a bassissimo costo, di creazioni intellettuali dell’Occidente; al contrario, la Cina sta sviluppando un’autonoma, grandiosa industria creativa per divenire essa stessa leader di quel “capitalismo cognitivo” di cui l’Occidente aveva finora, se non il monopolio, certamente il controllo.

Un processo che si inserisce in una reazione globale (e qui la visione si fa appassionatamente partigiana) alle riforme economiche di mercato, viste come una strategia di lungo periodo per piegare la Repubblica Popolare, nuova sede della delocalizzazione mondiale, alle esigenze del capitalismo occidentale. Un disegno che, tra le sue conseguenze, avrebbe il boom della corruzione come fattore che discenderebbe direttamente dal passaggio al capitalismo: in questo quadro, Roggero non esita a definire la stessa repressione di Piazza Tienanmen come trionfo della nuova Cina “neoliberale”, e i ragazzi che chiedevano libertà politiche e diritti civili come portabandiera di una rivolta contro, appunto, il neoliberalismo.

Chiarita dunque la visione d’insieme che Roggero presenta senza particolari dilemmi, il libro offre comunque spunti di indubbio interesse nelle analisi che i cinque docenti compiono, secondo i singoli interessi. I fenomeni economici sono indagati nelle loro implicazioni politiche, sociali e comportamentali, e alla tesi di fondo si accompagnano pagine che ne evidenziano gli aspetti drammaticamente contraddittori.

Così Andrew Ross si sofferma sull’evoluzione dell’industria culturale cinese e le difficoltà di convivenza con il partito-Stato e le sue logiche, finalizzate ben più all’esportazione che all’importazione di offerta culturale (rimane vivo, persino nell’era della Rete, il terrore per la “colonizzazione” da parte dell’Occidente). Yu Zhou, raccontandoci il fiorire di un’area industriale che diviene uno dei maggiori distretti tecnologici di Pechino, offre un esempio alternativo di sviluppo che gli imprenditori locali hanno saputo gestire in autonomia, senza la tutela delle multinazionali né la protezione governativa. Aihwa Ong descrive l’adattamento culturale dei businessmen (e delle businesswomen) cinesi alle opportunità offerte dalla trasformazione economica: un “capital-mimetismo” che genera abilissimi mediatori tra le compagnie straniere e gli impenetrabili sistemi di valori espressi dalla società cinese. Con Xiang Biao si denunciano le raffinate tecniche di sfruttamento dei lavoratori cinesi emigrati in altri Paesi asiatici, mettendo a confronto i modelli attuati da Singapore, Giappone e Corea del Sud. Infine, Ching Kwan Lee analizza l’intensificarsi dei conflitti sociali nel mondo del lavoro in diverse aree della Cina: una tensione che viene attribuita alla “confusione istituzionale” generata dalla commistione tra Stato e mercato, che secondo lo studioso sfocerebbe in politiche inadatte a governare la complessità dei rapporti di lavoro. La testa del drago offre un’occasione per osservare il “laboratorio Cina” dall’interno: non una fotografia, ma un tassello indispensabile, insieme a tanti altri, per comporre un mosaico troppo complicato per non richiedere una pluralità di sguardi.

Martino Periti

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