CULTURA

La partenza, il ritorno, il racconto. Gli italiani e la prima guerra mondiale

"Nel giro di pochi giorni la civiltà è stata annientata. Nel giro di pochi giorni i capi hanno fallito. Perché il loro ruolo, l’unico che contasse veramente, era appunto quello di evitare la catastrofe".

Queste parole di Gabriel Chevallier, tratte da La paura, un romanzo di guerra pubblicato nel 1930 in Francia, non possono però valere per l’Italia, che entrò nella fornace del primo conflitto mondiale dopo 10 mesi, mentre Germania, Inghilterra, Austria, Russia e Francia decisero per la guerra nel giro di un mese.

L'evento contingente di Sarajevo, il rischio calcolato, il tempo au ralenti delle diplomazie assediate dagli avvenimenti, le strategie militari, le psicologie di capi di stato e ministri, la ricerca di occasioni esistenziali di intellettuali e di settori della borghesia annoiati dalla Belle Époque, le mobilitazioni e le contro-mobilitazioni, tutto questo precipiterà nell’istante della decisione per la guerra presa den Tag und die Stunde, per dirla con le prime parole che aprono le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann. Una guerra di cui nessuno, o quasi, fu in grado di prevedere le immani conseguenze distruttive e il trauma indelebile che avrebbe rappresentato per l’Europa.

L’Italia, invece, entrò nella Grande Guerra dopo quasi un anno di discussioni laceranti e ne uscì vittoriosa, nonostante il rovinoso sbandamento di Caporetto, ma sempre altrettanto divisa e lacerata. Con una vittoria militare ottenuta a carissimo prezzo e che non produrrà coesione nazionale né senso di condivisione pubblica. Anzi, proprio il mito della “vittoria mutilata” e l’incapacità politica dell’élite liberale di capitalizzare il 4 novembre del 1918 rendendolo fattore di legittimazione portarono alla dissoluzione del sistema parlamentare, all’avvento del fascismo e a una idea totalitaria di patria.

Tutti questi fili tornano e vengono puntualmente analizzati nel nuovo libro di Marco Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918, che sottolinea la peculiarità dell’intervento dell’Italia come il "punto di arrivo di una tormentata transizione" e momento di svolta fondamentale per il paese nel Novecento, rilevando allo stesso tempo come il fronte italiano sia stato, invece, sottovalutato dalla storiografia europea della guerra 1915-18. La recente The Cambridge History of First World War si limita, in tre volumi e più di duemila pagine, a dedicare un solo contributo al fronte italo-austriaco. Eppure basti solo pensare che 400 dei 650.000 morti italiani sono rimasti uccisi sull’Isonzo, un "monumento della carneficina europea" scriverà il tenente austriaco Fritz Weber in Tappe della disfatta. Morte di massa e in serie a livelli che nulla hanno da invidiare ai più sanguinosi teatri di guerra del fronte occidentale come Ypres, Verdun, la Somme e contraddice il mito pittoresco e leggendario della guerra in montagna tra ghiacciai, paesaggi mozzafiato e alpinisti sciatori. Di fronte ai massacri del Carso, l'enfasi sulla "guerra bianca" come variante del conflitto storia-natura appare profondamente oscena, ci ricorda Mondini.

I tre momenti dell’andare (l’attesa della guerra, la nazione in armi e la struttura sociale dell’esercito, la partenza), del raccontare (le memorie, la propaganda e la retorica, le case del soldato) e del ritorno (i reduci, i prigionieri di guerra, la memoria pubblica e monumentale) sono gli aspetti della guerra italiana che Mondini, storico allievo di Piero del Negro, mette a fuoco in questo eccellente saggio. Alla base del lavoro un cospicuo apparato di letture che va dagli archivi militari e di Stato ai quotidiani, dalle lettere alla memorialistica di guerra. Da segnalare il peso che Mondini attribuisce al ruolo dei tanti combattenti-scrittori che hanno dato forma allo specifico italiano del mito dell’esperienza di guerra. L’autore non si limita alla lettura di quelli che sono per noi i classici della memoria di guerra come Lussu o Comisso, ma prende in considerazione testi ormai dimenticati che furono però, nel dopoguerra, autentici best seller come Le scarpe al sole di Paolo Monelli e il bellissimo Trincee di Carlo Salsa, usciti rispettivamente nel 1921 e nel 1924.

Si può dire che ormai la storiografia militare, politica e diplomatica della Grande Guerra è stata affiancata da tempo dallo studio delle modalità di comprensione e di elaborazione psicologica, culturale e sociale che gli europei ebbero della Prima guerra mondiale. Mondini è in buona compagnia, basti pensare a storici come Isnenghi, J. Winter, E. Leed, J.-J. Becker, C. Clark e P. Fussell. "Ciò che ho scritto non è una storia militare classica. Le battaglie e le tecniche di ingaggio trovano poco spazio, anche se la conoscenza dei meccanismi della società militare, della cultura tecnica dei professionisti delle armi e delle condizioni di vita (e di morte) dei combattenti è un elemento fondamentale di questo lavoro. Il mio approccio fa però i conti soprattutto con quella che è stata definita la storia culturale della guerra e con la predilezione per l’analisi delle rappresentazioni e dei discorsi, piuttosto che degli ordini di marcia e dei calibri delle artiglierie. Per questo ho intrecciato fonti che possono apparire a prima vista incongrue: documenti d’archivio istituzionali e testi letterari, testimonianze artistiche e statistiche ufficiali, pellicole cinematografiche e fumetti".

Soffermiamoci, in conclusione, sull’andare. Singolarità del caso italiano. L’entrata in guerra dell’Italia non è a caldo, nessuna reazione immediata. Al contrario, l’intervento - il primo esperimento collettivo della nazione - sarà meditato e discusso per quasi un anno. Una singolarità, dunque, che vale la pena di studiare a fondo, perché la forbice tra interventisti (la minoranza) e neutralisti (la maggioranza) rivelerà dei tratti conflittuali della società italiana che la partecipazione alla guerra e il sacrificio di 650.000 morti non saranno sufficienti a ricomporre, anzi. Sono molteplici i soggetti e le loro ragioni di avversione o di sostegno alla guerra: irredentisti, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti, il governo e la corona, l'industria e i militari, Mussolini e il D’Annunzio di Quarto, la Chiesa, il silenzio e la rassegnazione di milioni di contadini ancora estranei ai miti nazionali. Alla fine di un processo decisionale complesso e ambiguo, che culminerà nella forzatura del maggio 1915, ecco la dichiarazione di guerra all’Austria. Gli italiani, dopo essere stati spettatori del primo anno di guerra, ne diventano attori. Dalla guerra vista, sognata, temuta, dalla guerra rappresentata attraverso giornali e riviste (Mondini ricorda il ruolo del “Corriere della sera” e delle copertine di Achille Beltrame), si passerà alla guerra per davvero: "cominciava la guerra vera, quella di trincea, in cui il paese entrava diviso e sotto molto aspetti non preparato". Un trauma che avrebbe segnato come null'altro la storia futura del paese.

Sebastiano Leotta

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