SOCIETÀ

L'economia globale: una macchina che va ancora a carbone

Gli sforzi per immaginare un mondo diverso da quello in cui viviamo, dove l'inquinamento atmosferico sia un lontano ricordo e le fonti rinnovabili possano soddisfare a pieno il fabbisogno energetico mondiale, continuano a appartenere soltanto ai sogni degli ambientalisti più convinti, alle previsioni degli economisti più lungimiranti e alle campagne elettorali dei politici meno realistici. Nonostante il protocollo di Kyoto del 1997, siglato da 160 Paesi, e la riconosciuta emergenza climatica determinata dal riscaldamento globale, il consumo di combustibili fossili appare ben lontano dal diminuire sensibilmente. L'eredità di una rivoluzione industriale non troppo lontana pesa ancora su un'economia che, al livello mondiale, continua a utilizzare come fonte di principale approvvigionamento energetico una risorsa di facile accesso, economica e versatile: il carbone. 

I dati più aggiornati riferiscono che la produzione di carbone nel mondo è in costante crescita e anche il suo consumo, in particolare nei paesi dell'Asia Occidentale dove negli ultimi 50 anni si è quintuplicato. Nel 2011 le miniere hanno messo a disposizione dell'industria 7.678 milioni di tonnellate di carbone, facendo registrare un incremento del 6.6% rispetto al precedente anno e alimentando un mercato globale in cui Indonesia, Australia e Russia giocano il ruolo di principali esportatori e la Cina, nonostante sia il più grande produttore mondiale (3.471 Mt - 2011) è anche il principale importatore. Sul suo territorio nazionale, infatti, può vantare il 14% delle riserve carbonifere mondiali che, però, non soddisfa a pieno le richieste di un'attività industriale dai ritmi elevati. Il carbone gioca un ruolo centrale come combustibile nella produzione di energia elettrica assicurandone il 42% a livello mondiale (il 79% in Cina), un impiego che, nonostante i grandi miglioramenti tecnici degli ultimi anni nell’efficienza e nel contenimento delle emissioni inquinanti, continua ad avere costi ambientali ed umani pesantissimi. Se per i primi sotto accusa sono i gas serra, e anzitutto l’anidride carbonica liberata dalla combustione, per i secondi il fattore principale sono le condizioni di lavoro nelle miniere e l’inquinamento diretto che deriva dai processi di estrazione e lavorazione. 

Proprio le miniere di carbone, in particolare le più piccole, nella maggior parte dei casi di proprietà di privati o delle amministrazioni locali, sono al centro dell'attenzione del governo della Repubblica Popolare Cinese e della sua Amministrazione Statale per la Sicurezza sul Lavoro che ha inviato diverse unità ispettive per il controllo dell'attività estrattiva. Ogni anno, infatti, la Cina registra un altissimo numero di vittime causate dagli incidenti nelle miniere: 1.973 morti nell'ultimo anno e 2.433 nel 2010; dati che preoccupano soprattutto se confrontati a quelli degli Stati Uniti, secondo produttore mondiale di carbone, che ha registrato 48 morti nel 2010. Il costo medio del lavoro in Cina è di 1,06 dollari all’ora, contro un costo negli Usa di 34,74 dollari, il che facilita enormemente il ricorso a grandi masse di lavoratori poco qualificati; la produttività media per addetto è però negli Usa di 20 tonnellate giornaliere, in Cina di una soltanto: la meccanizzazione e le tecniche moderne fanno una grande differenza tanto nella produttività quanto nella sicurezza del lavoro. 

La delicata operazione di supervisione e controllo è stata predisposta in vista del 18° Congresso del Partito, che si aprirà l'8 novembre e consacrerà la nuova classe dirigente cinese. Gli analisti della vicina Hong Kong suggeriscono che la Cina abbia deciso di indirizzare le proprie politiche in materia di carbone verso una maggiore sicurezza in ambito lavorativo, riconoscendo l'urgenza e la gravità della situazione. L'Ufficio incaricato di occuparsi di ciò ha pianificato l'imminente chiusura di 100 piccole miniere sparse per il territorio e ne ha programmato un taglio complessivo di 600 per dare un segnale chiaro entro l'inizio del congresso e soprattutto, aggiungono gli analisti, perché si possa mantenere una stabilità politica e sociale in un delicato momento di transizione governativa. 

Nell'ultimo periodo infatti gli incidenti in miniera sono stati numerosi, a partire dall'esplosione che il 28 agosto ha provocato 45 morti nello Sichuan, fino alle 32 vittime di altri due incidenti che tra il 22 e il 25 settembre hanno portato alla chiusura di molte miniere di cui 31 soltanto nello Shanxi, e l’indignazione popolare per queste tragedie annunciate è grande. L’estrazione mineraria e la combustione del carbone per ottenere energia sono causa di migliaia di incidenti sul lavoro all’anno, ma anche di malattie croniche e malformazioni alla nascita: si calcola che 400.000 persone all’anno muoiano prematuramente in Cina per malattie legate all’inquinamento, e che i neonati con malformazioni riconducibili a queste attività siano cresciuti del 40% rispetto al 2000: una situazione ormai fonte di notevole allarme, e che comincia ad essere oggetto di opere di denuncia che le autorità consentono di produrre e distribuire liberamente, come la pellicola “Pozzo cieco” di Li Yang.

Il Sichuan insieme alla Mongolia centrale e allo Shanxi detiene il 60% della produzione nazionale di carbone e qui le ispezioni potrebbero bloccare temporaneamente l'attività estrattiva in tutte le miniere che non appartengono allo Stato (per un totale di quasi il 40% della produzione locale), pozzi che in alcuni casi erano stati chiusi e che sono stati riaperti clandestinamente o corrompendo i funzionari locali, in condizioni di sicurezza pressoché nulle. Alcune fonti calcolano che quasi l’80% delle 16.000 miniere cinesi sia illegale, e nel solo 2008 ne erano state chiuse ben 1054, spesso piccole e piccolissime. Le società minori potrebbero risentire fortemente delle nuove misure di sicurezza e del vincolo di produzione che impone la chiusura dei pozzi che producono meno di 300.000 tonnellate all’anno, provvedimenti di fatto a vantaggio delle grandi compagnie, le quali hanno già fatto registrare notevoli miglioramenti sui mercati azionari di Hong Kong. Il piano del governo cinese potrà arginare temporaneamente il problema delle condizioni precarie dei suoi minatori, ma, usando le parole di Chen Yanyan analista della Glinfo.com di Shanghai, l'unico modo per assicurarsi durante il Congresso l'assenza di incidenti sarebbe la completa sospensione, anche se soltanto per un breve periodo, delle attività estrattive nelle miniere non statali. 

Ma il carbone riesce a essere protagonista, oltre che nelle vicende politiche asiatiche, anche nella battaglia americana che con le elezioni del 6 novembre eleggerà il presidente degli Stati Uniti. Le miniere degli Usa, infatti, producono 1.004 Mt (WCA - 2011) di carbone destinato in massima parte all'utilizzo interno, fattore che contribuisce a assicurare l'indipendenza energetica. Le più importanti si trovano nella Virginia nord-occidentale e nell'Ohio, aree strategiche dal punto di vista elettorale e molto sensibili ai progetti dei due candidati che riguardano l'approvvigionamento energetico. La Virginia, per esempio, ha risentito molto delle scelte di Obama in materia di energie rinnovabili e l'economia del carbone è messa seriamente in difficoltà con l'incentivazione del gas naturale. La popolazione media di uno Stato che tradizionalmente basava la sua economia sulle miniere di carbone non ha accettato perciò molte scelte dei Democratici. A partire dalla campagna elettorale di Al Gore, che attribuì grande importanza alla necessità di una svolta ambientale, è diventata abbastanza netta la volontà di privilegiare l'energia pulita e abbandonare gradualmente la centralità dei combustibili fossili. Oggi la maggior parte degli Stati con queste peculiarità è schierata dalla parte di Mitt Romney e, non apprezzando la lungimiranza di alcune scelte politiche, con lo slogan "Coal=Jobs" mette in serie difficoltà il presidente Obama.

Giuseppe Cicchetti

 

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