SOCIETÀ

Dimmi come parli e ti dirò chi sei

Era il 24 febbraio, data in cui i social media furono letteralmente invasi da una parola nuova, “petaloso”. I giornali nazionali ed esteri fecero il resto. Inventato da un bambino di terza elementare, l’aggettivo avrebbe dovuto essere segnato con matita blu, se la maestra non si fosse rivolta direttamente all’Accademia della Crusca. “Bella e chiara” è stata definita la parola dagli esperti, ma perché entri nel vocabolario è necessario “che la usino tante persone e che tante persone la capiscano”. Pochi mesi prima a prendere l’iniziativa è stata la Treccani che ha lanciato la campagna social #leparolevalgono. Un modo, al passo con i tempi, per valorizzare la lingua italiana e riportare l’attenzione sul linguaggio, sul significato dei termini, sulla ricchezza lessicale. Perché utilizzare “carino” se abbiamo a disposizione “delizioso, gradevole, piacevole, grazioso”? Perché preferire “grande” a “imponente, maestoso, straordinario, immenso”? E potremmo continuare così con numerosi altri termini inflazionati ma, permettete, alquanto mosci. Pensate a “brutto”, “cosa”, “fare”. Un po’ come restare al bianco e nero nell’epoca dei colori. Il linguaggio che usiamo in realtà dice molto di noi e della nostra personalità, tant’è che la Treccani invita a rivelare sui social media parole particolarmente significative. Non mancano i nomi noti, da Samantha Cristoforetti che indica la “fiducia”, in se stessi, negli altri esseri umani, nel futuro, a Mogol che vede nel termine “automatismo” l’insieme di esperienze che consentono di prendere decisioni immediate trasformando un’intuizione in un’opera d’arte. Fino ad Alessandro Baricco che sceglie l’aggettivo “complesso”, perché “è una versione ottimistica del termine complicato: mi ha aiutato spesso a trasformare in opportunità delle situazioni che sembravano solo tremendamente difficili”.  

Che le parole siano rivelatrici di uno stato mentale, sociale e anche fisico non è un concetto nuovo, sottolinea in un lavoro di qualche tempo fa James W. Pennebaker, psicologo alla University of Texas che da tempo si occupa di questi argomenti. Sigmund Freud sostiene che errori comuni del parlato possano tradire e lasciar emergere paure personali (Psychopatology of everyday life, 1901). Secondo lo psicanalista Jacques Lacan (The language of the self: the function of language in psychoanalysis, 1968) l’inconscio si esprime attraverso il linguaggio che in questo modo diventa un ponte con la realtà. Il filosofo Paul Ricoeur sottolinea che il modo in cui un individuo descrive un evento definisce il significato che la persona attribuisce a quella determinata situazione (Interpretation theory: discourse and the surplus of meaning, 1976). “Il modo in cui le persone usano le parole – argomenta Pennebaker – fornisce una grande quantità di informazioni su chi parla, sull’ascoltatore e sulla situazione in cui ci si trova. La scelta dei termini può suggerire lo stato sociale, l’età, il sesso e le motivazioni di una persona. Si può intuire se l’oratore (o lo scrittore) è emotivamente coinvolto o distaccato, meditativo o superficiale, verosimilmente se è estroverso, nevrotico o aperto a nuove esperienze”. 

Il linguaggio ad esempio cambia con l’avanzare dell’età e a dimostrarlo sono studi condotti negli ultimi anni: si assiste a un aumento nell’uso di termini che indicano relazioni di causa-effetto, di tempi verbali futuri e di termini che suscitano emozioni positive, mentre si ricorre meno alla prima persona singolare. Differenze nell’uso del linguaggio sono state rilevate tra uomini e donne e di questo molto si è discusso e si discute. Nel 1975 Robin Lakoff pubblica un lavoro fondamentale sulle differenze di genere nell’uso del linguaggio, Language and women’s place. Le donne usano un linguaggio meno assertivo rispetto agli uomini e più cortese: un linguaggio che contiene un maggior numero di avverbi intensivi (davvero, così), di verbi che esprimono incertezza (sembra che, potrebbe), di interrogative retoriche (vero? dico bene?). Un modo di esprimersi che sarebbe il riflesso della marginalità e della mancanza di potere nella società a cui le donne per molto tempo sono state relegate. I risultati di Lakoff sono confermati da indagini successive che in generale vedono gli uomini esprimersi in modo più diretto, preciso e oggettivo.    

Certi aspetti del linguaggio come i dialettismi o i termini colloquiali sono spie dei luoghi in cui una persona è cresciuta. E il modo in cui ci si rivolge a un interlocutore indica se si tratta di un amico o di uno sconosciuto. Ebbene, anche le parole che si sceglie di non dire hanno un valore, le pause di riempimento, gli intercalari. Questi ultimi in particolare, sottolinea Charlyn M. Laserna in uno studio pubblicato un paio di anni fa riferendosi a termini come “uh, um, I mean, you know, like” (uhm, ehm, cioè, sai, come dicevo), sono irregolarità del parlato alle quali si ricorre in misura differente a seconda dell’età, del sesso e della personalità. Secondo gli studiosi ad esempio l’impiego delle pause piene (cioè, sai) sarebbe più frequente nelle persone definite “coscienziose”, probabilmente perché più riflessive e consapevoli di sé e dell’ambiente che le circonda. E dunque più desiderose di condividere o riformulare opinioni con l’interlocutore.  

Va poi considerato che le parole possono assumere sfumature e significati differenti a seconda della lingua che si utilizza e del substrato culturale di riferimento. E diverse sono, di conseguenza, anche le aree cerebrali che vengono attivate. Alexander G. Huth e il suo gruppo della University of California a Berkeley hanno pubblicato su Nature il primo “atlante semantico” che individua quali zone del cervello sono coinvolte nell’analisi di specifici gruppi di significato, per capire in questo modo quali informazioni vengono processate in ciascuna area. Uno studio che ha bisogno di ulteriori approfondimenti, ma che potrebbe avere applicazioni interessanti in ambito medico in caso di pazienti colpiti da ictus o da malattie neurodegenerative. 

Abbiamo le macchine / per scrivere le parole / dittafoni magnetofoni / microfoni / telefoni / Abbiamo parole / per far rumore, / parole per parlare / non ne abbiamo più”. Scriveva Gianni Rodari nel 1985. Forse sarebbe tempo di cercarle. 

Monica Panetto

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012