CULTURA

E guerra fu: il “maggio radioso” del 1915

Dichiaratasi neutrale nell’agosto del 1914, nel volgere di pochi mesi l’Italia decise di abbandonare la Triplice alleanza, si schierò a fianco dell’Intesa, e dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 24 maggio 1915, entrando quindi nel conflitto che rappresentò l’avvio del “secolo breve”. Nonostante la presenza di una vasta documentazione, per molto tempo la storiografia non si è più occupata di questo evento; inoltre il coinvolgimento italiano nella “grande guerra” era sempre stato affrontato secondo schemi noti: da un lato nella sua realtà di processo politico-diplomatico, dall’altro nel contesto interno, in particolare per l’interpretazione che ne venne data come di una “rottura” di carattere politico ed istituzionale anticipatrice dell’avvento al potere del fascismo.

Ora, il ricorrere del centenario della prima guerra mondiale ha finalmente stimolato una serie di nuovi studi. In questo ambito, ritengo sia importante riuscire definitivamente a connettere il momento diplomatico con quello di carattere interno. La scelta di entrare in guerra, presa da tre persone (il primo ministro Antonio Salandra, il ministro degli Affari Esteri, Sidney Sonnino, e Vittorio Emanuele III), fu infatti la singolare commistione della tradizione risorgimentale e delle emergenti ambizioni imperialiste, di cui il più significativo portavoce era il movimento nazionalista.

Lo stesso spirito risorgimentale che puntava alla liberazione delle ultime terre irredente si confondeva con la convinzione che il Risorgimento sarebbe potuto dirsi compiuto solo se il paese avesse trovato posto nel novero delle grandi potenze. Rilevante per i leader dell’Italia liberale era inoltre la convinzione circa la debolezza della istituzione monarchica, che avrebbe avuto modo di radicarsi nel paese e di vedersi legittimata attraverso una guerra vittoriosa, pena in caso contrario l’affermazione di un movimento sociale rivoluzionario.

Il processo politico diplomatico, condotto in maniera segreta e che vide Sonnino negoziare contemporaneamente con l’Intesa e con gli imperi centrali si concluse nell’aprile del 1915 con la firma del Patto di Londra, il quale oltre alle terre irredente (Trento e Trieste) concedeva all’Italia il Sud Tirolo, l’Istria e parti consistenti della Dalmazia. Da questo momento però il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio si trovarono di fronte al problema di come convincere un’opinione pubblica e un parlamento in ampia misura neutralisti.

Sullo sfondo inoltre si situava la figura di Giovanni Giolitti, leader dell’ala riformista del partito liberale, contrario all’intervento e convinto che la prosecuzione del negoziato con l’Austria-Ungheria e la Germania avrebbe consentito all’Italia, non solo di preservare la neutralità, ma anche di conseguire significative concessioni territoriali, il cosiddetto “parecchio”.

Diplomazia e neutralità sembravano quindi una strada già tracciata. Ma ciò che accadde nelle brevi settimane tra la fine di aprile e la fine di maggio dimostrò che l’ingresso in guerra era visto da Salandra e dalle forze interventiste, in particolare i nazionalisti, anche come l’occasione propizia per un cambiamento radicale degli equilibri politici interni, in particolare la fine dell’era giolittiana, con la chiusura nei confronti di socialisti e cattolici e il ritorno a una guida del paese da parte dei liberali conservatori.

Per qualche giorno però i progetti di Salandra e Sonnino parvero di nuovo fallire di fronte all’arrivo di Giolitti a Roma e alla dimostrazione dell’apparente sostegno di gran parte dei deputati allo statista piemontese. A far pendere il piatto della bilancia dalla parte dell’intervento fu però la discesa nelle piazze, soprattutto nella capitale e a Milano, del movimento nazionalista. Centrale in questo fu il ruolo di Gabriele D’Annunzio: il poeta, rientrato dall’”esilio” parigino, si fece dapprima “cantore” dell’intervento con il discorso tenuto a Quarto in occasione dell’inaugurazione al monumento ai Mille, poi a Roma si contraddistinse come arringatore delle folle e incitatore all’uso della violenza contro gli avversari politici, anticipando di qualche anno l’esperienza fiumana.

L’aria era ormai cambiata. Il re finì con il respingere le dimissioni di Salandra, il quale non avrebbe faticato a trovare ora in Parlamento una maggioranza fra gli intimoriti deputati liberali. E guerra fu.

Sebbene il paese si rivelasse più forte di quanto non avesse creduto Giolitti e in grado di superare la prova del conflitto, inclusa la dura sconfitta di Caporetto, la grave frattura istituzionale, però, e il violento conflitto politico che aveva caratterizzato l’intervento avrebbero condizionato in maniera forte e negativa il difficile periodo postbellico.

Antonio Varsori   

Antonio Varsori, Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra, il Mulino 2015

Corriere della Sera, la prima pagina del 24 maggio 1915

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