UNIVERSITÀ E SCUOLA

Insegnamento e apprendimento in Italia: figli di un Dio minore?/2

Il processo di ridimensionamento, al quale il sistema universitario è stato costretto, ha coinvolto pesantemente anche la didattica e ha fatto precipitare l’Italia all’ultimo posto in Europa per numero di laureati nella fascia d’età compresa tra i 30 e i 34 anni, senza che si intraveda alcuna possibilità di poter recuperare il ritardo; uno stato di cose destinato a far crescere, in tempi non troppo distanti, anche i problemi sociali, accanto a quelli economici, di crescita e di competitività. Ma non si intravede nessuna strategia e nessuna iniziativa politica per recuperare la distanza che ci separa dai paesi più progrediti.

La dimensione della formazione superiore e le criticità dell’apprendimento permanente

Accanto al problema della qualità e della modernizzazione della formazione superiore ve n’è uno si portata, se possibile, ancora maggiore: quello della progressiva contrazione della dimensione della formazione superiore.

Secondo i dati pubblicati da EUROSTAT lo scorso 20 aprile 2015 l’Italia è infatti precipitata all’ultimo posto in Europa per cittadini dotati di formazione superiore, nella fascia di età 30-34 anni; vi sono paesi che si collocano ormai ben sopra al 50%, come Lituania (53,3%), Lussemburgo (52,7%), Cipro (52,5%) e Irlanda (52,2%) mentre, dalla parte opposta della scala, si collocano Italia (23,9%), Romania (25%), Malta (26,6%), Slovacchia (26,9%) e Repubblica Ceca (28,2%). L’Italia, con il suo deprimente 23,9% è proprio la peggiore, la peggiore di tutti. L’obiettivo dell’Unione Europea è che tutti i suoi paesi raggiungano il 40% entro il 2020; molti paesi lo raggiungeranno, alcuni lo hanno già raggiunto, altri hanno già superato il 50% e qualche paese si propone perfino di superare il 60%. L’Italia invece ha ridimensionato il proprio obiettivo al 26%; è vero che anche altri paesi si pongono target inferiori al 40% ma, in ogni caso, tutti a livelli più elevati del 26% stabilito dall’Italia.

Ma la posizione dell’Italia merita un ulteriore approfondimento. Nel 2012 l’Italia stava al 22,3%. Ad una analisi superficiale si potrebbe pensare che abbiamo fatto progressi in questi ultimi anni, che siamo cresciuti, che siamo sulla buona strada e che, anche se forse non si raggiungerà proprio il 26%, vi arriveremo vicini. Ebbene, le cose non stanno proprio così. Infatti gli studenti immatricolati, dopo aver raggiunto un numero massimo di 338.500 nel 2003/04, sono poi rapidamente scesi a circa 280.000 nel 2011/12, per scendere ancora a 265.500 nel 2014/15, con una perdita annua di 73.000 studenti, pari al 21,6%. Il timido aumento riscontrato nelle immatricolazioni 20015/16, pari al 2,2%, non modifica la sostanza delle considerazioni svolte. 

Corrispondentemente anche il numero degli iscritti è sceso da 1.824.000 del 2005/06 a 1.751.000 del 2011/12. Tutto questo fa capire che la lieve crescita dei laureati in fascia di età i 30-34 anni non è altro che l’effetto dell’onda lunga della crescita delle immatricolazioni nei primi anni del secolo e i dati lasciano anzi prevedere che non avremo nessuna crescita dei laureati, ma addirittura una diminuzione, che continuerà a lasciare l’Italia assai distante da quel 40% che l’Unione Europea si è posto come obiettivo per il 2020. 

La riduzione degli studenti che si immatricolano all’università può essere anche motivata dalla progressiva e drammatica contrazione delle risorse destinate al diritto allo studio; non bisogna infatti dimenticare che in Italia la situazione è al tempo stesso bizzarra e paradossale, perché le risorse stanziate non sono sufficienti a garantire la borsa di studio a tutti gli studenti che ne hanno diritto; è un vero e proprio diritto negato, tanto più grave in quanto si tratta di diritto costituzionalmente garantito. Le risorse destinate al diritto allo studio hanno subito nel tempo rilevanti fluttuazioni; il grado di copertura delle borse, che nel 2001/02 era del 62,2%, è progressivamente salito fino a raggiungere l’85,8% nel 2009/10 per ridiscendere nei due anni successivi al 68,8%. E non è un caso che, come i dati dimostrano, siano proprio le fasce socialmente ed economicamente più deboli dalla popolazione che rinunciano in misura maggiore a proseguire gli studi all’università. A tutto questo si aggiunga che la nuova modalità di calcolo dell’ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente), recentemente introdotta, rischia di aggravare ulteriormente la situazione.

Anche il numero dei corsi di studio, dopo aver raggiunto un massimo nel 2007/08, si è progressivamente ridotto, in misura perfino maggiore rispetto alla contrazione degli studenti. In particolare i corsi di studio ai quali gli studenti si possono immatricolare, vale a dire i corsi di laurea triennale e i corsi di laurea magistrale a ciclo unico, sono diminuiti dai 3103 del 2007/08 ai 2389 di oggi; essi sono quindi in numero addirittura inferiore ai 2444 attivati prima che fosse avviato il processo di Bologna, e pertanto le opportunità di scelta offerte agli studenti sono oggi minori di quelle del 1999/00. Il numero medio di studenti per corso di studio immatricolati al primo anno, che nel 2007/08 si attestava attorno ai 100 studenti, è ora risalito ad oltre 110. Se inoltre si considera che negli ultimi 15 anni sono state istituite molte nuove università non statali, delle quali ben undici telematiche, la contrazione dei corsi di studio nelle università statali risulta ancora più marcata.

Il deficit in tema di Apprendimento Permanente

Anche il tema dell’apprendimento permanente, o apprendimento lungo l’intero arco della vita (Lifelong Learning - LLL) merita uno specifico approfondimento. Ormai da molti anni l’Unione Europea lo considera come uno dei pilastri sui quali poggia e si sviluppa la società della conoscenza e come fattore fondamentale per la crescita; ma anche su questo terreno l’Italia, in assenza di adeguate politiche di sostegno, si trova in posizione assai arretrata, con un numero di cittadini che rientrano nel ciclo formativo in misura inferiore al 10%, la metà dei paesi europei più progrediti. Inoltre anche il riconoscimento degli apprendimenti pregressi in termini di crediti da parte delle università è parte costitutiva del Processo di Bologna; tale tema è considerato oggi così rilevante e di così elevata priorità che il comunicato finale della Conferenza di Yerevan richiede esplicitamente l’impegno dei Governi a rimuovere gli ostacoli a tale riconoscimento, sia per consentire l’accesso diretto ai corsi di studio, sia per agevolare il conferimento dei titoli di studio. Contestualmente al forte impegno richiesto a rimuovere gli ostacoli al riconoscimento dei CFU si invitano le istituzioni a dotarsi di strumenti idonei al riconoscimento degli apprendimenti pregressi; il riconoscimento non va infatti fatto, come è avvenuto in Italia, riconoscendo crediti a intere categorie di persone che occupano determinate posizioni lavorative, ma attraverso un molto attento e molto serio processo di valutazione delle competenze individualmente possedute, secondo modalità ormai consolidate in Europa.

Ma la legge 240/10 sembra ignorare tutto questo e continua a porsi come ostacolo insormontabile per il riconoscimento dei crediti. Infatti l’art. 14 limita a dodici il numero massimo di crediti formativi universitari riconoscibili per conoscenze e abilità professionali certificate e per altre conoscenze e abilità maturate in attività formative di livello post-secondario. Il Decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, prima vigente, già stabiliva la riconoscibilità fino a sessanta crediti e i successivi Decreti sulle classi avevano poi stabilito che essi non potevano superare i sessanta e i quaranta per le lauree e per le lauree magistrali rispettivamente. Invece il Ministero dà oggi all’art. 14 della legge Gelmini un’interpretazione ancora più restrittiva, stabilendo che dodici rappresenta il massimo numero di crediti complessivamente riconoscibili tra primo e secondo livello.

I benefici della conoscenza e i costi dell’ignoranza

Come si è detto l’Italia è precipitata all’ultimo posto in Europa per cittadini nella fascia di età 30-34 anni in possesso di formazione superiore, con il suo imbarazzante 23,9%. Il problema è che il sistema universitario italiano è largamente sottodimensionato rispetto alle esigenze del paese e rispetto agli altri paesi più avanzati e non è certamente nelle condizioni di poter recuperare la distanza che ci separa dal resto dell’Europa.

Eppure c’è ancora chi sostiene che in Italia ci sono troppi laureati. In realtà la laurea, nonostante diffuse convinzioni contrarie, continua a offrire le migliori opportunità occupazionali e reddituali rispetto al solo diploma di scuola secondaria. La crisi ha colpito duramente i più giovani, ma gli effetti sono stati peggiori tra i giovani con i livelli di istruzione più bassi. Inoltre la Banca d’Italia e l’OCSE sostengono, in maniera documentata, che la formazione superiore rappresenta il miglior investimento a lungo termine, perché garantisce un ritorno economico di gran lunga superiore a quanto investito, sia per il singolo individuo sia per lo Stato, per i maggiori introiti che derivano dalla tassazione. In altre parole l’investimento in formazione terziaria è anche a vantaggio dello Stato, nel senso che il ritorno per il contribuente è superiore alla spesa. È quanto dichiarato dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nell’ottobre 2013 a Bari, nel corso del X forum del libro passaparola e, anni prima e in tempi non sospetti, da Carlo Azeglio Ciampi. L’OCSE, analizzando paese per paese i benefici derivanti dall’investimento in formazione superiore, conclude anzi che l’Italia è uno dei paesi in cui sia l’individuo che il contribuente trarrebbero i maggiori benefici a lungo termine. Non è dunque certamente un caso che i paesi più accorti abbiano tagliato le spese in altri settori e aumentato invece in maniera consistente l’impegno in formazione superiore e ricerca. 

Se autorevolissimi organismi certificano i benefici economici derivanti dalla formazione superiore, non vanno nemmeno sottovalutati i costi sociali dei mancati investimenti in formazione o, come si può anche dire, i costi diretti e indiretti dell’ignoranza. La scarsa cultura è terreno fertile per i comportamenti irrazionali, antisociali, quando non criminali. Anche senza considerare i casi estremi l’ignoranza e la scarsa competenza producono in ogni caso effetti che rendono l’organizzazione sociale e il funzionamento dei servizi inefficienti e arretrati. In un mondo nel quale la conoscenza sta alla base dello sviluppo e della crescita, una scarsa diffusione della formazione superiore va considerata in modo non molto dissimile dell’analfabetismo dei primi anni dell’unità d’Italia. A Derek Bok, già rettore dell’Università di Harvard, è attribuito l’aforisma: “If you think education is expensive, try ignorance”.

Per finire

Come è possibile che i dati e le considerazioni svolte non facciano riflettere e non inducano chi ha la responsabilità politica della formazione superiore in Italia ad adottare immediate e adeguate contromisure?

Investire di più in formazione superiore, puntare sulla crescita del numero dei laureati, sviluppare processi di valutazione a garanzia della qualità della formazione in linea con i paesi più avanzati, sono priorità assolute, scelte obbligate per la crescita del paese che, in loro assenza, è condannato ad un inevitabile declino economico, politico e sociale.

Andrea Stella

Articolo originale tratto da Roars.it

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