SOCIETÀ

I miliardari avanzano sulla scena politica

Oggi e domani si tengono le elezioni politiche in Repubblica Ceca. Si tratta di un altro importante appuntamento elettorale che riguarda uno stato membro dell’Unione Europea e che si inserisce in un fitto calendario politico che è cominciato con il voto olandese del marzo scorso e si concluderà con le elezioni politiche italiane della prossima primavera. Nel mezzo, il rinnovo dei parlamenti in Francia, Germania, Regno Unito e Austria.

Si tratta ancora una volta di un test che servirà a constatare l’eventuale tenuta dei partiti tradizionali e a misurare il successo dei movimenti populisti. I media internazionali descrivono l’elettorato come “frustrato e arrabbiato” e come probabile un’alta astensione. I sondaggi della vigilia danno favorito il movimento “ANO” (Akce Nespokojených Občanů, letteralmente “Azione dei Cittadini Insoddisfatti”), accreditato di oltre il 25% dei voti. Fondato nel 2012, appena un anno dopo, alle sue prime elezioni parlamentari, ottenne il 18,7% dei voti. Con 47 deputati (su un’assemblea di 200) entrò direttamente nella maggioranza di governo a sostegno del governo guidato dal Premier social-democratico Sobotka.

ANO è uno degli ormai classici movimenti anti-establishment fioriti in tutta Europa. Un partito nuovo, anti-elite, ostile all’Unione Europea, anti-immigrazione, contrario all’accoglienza di anche un solo rifugiato sul territorio ceco. Movimento populista che, tuttavia, nel 2014 è entrato nell’ALDE, il gruppo dei Liberali al Parlamento Europeo. I quattro anni in maggioranza di governo non hanno eroso voti, anzi hanno fatto incrementare i consensi tanto che il fondatore e leader Andrej Babiš sarà molto probabilmente il Primo Ministro designato. Babiš è figlio di un diplomatico con ottime entrature politiche ai tempi del regime comunista, ha studiato in Francia e Svizzera e ha creato Agrofert, un impero che spazia dall’agro-alimentare alle industrie chimiche e che lo ha reso il secondo un uomo più ricco della Repubblica Ceca. Con un patrimonio personale stimato superiore ai 4 miliardi di dollari, Babiš, nel 2013, ha anche acquisito il controllo di due dei più importanti quotidiani del Paese: Mladá fronta Dnes e Lidové noviny. Al centro di indagini giudiziarie riguardanti presunte frodi finanziarie, il mese scorso ha subito il voto del parlamento che ha accettato la richiesta dei magistrati privandolo dell’immunità parlamentare.

Babiš è solo l’ultimo di una serie di miliardari entrati in politica e arrivati democraticamente alle massime cariche elettive. Sebbene si tratti di un fenomeno ancora largamente poco studiato, specie in ottica comparata, l’ingresso dei miliardari nell’arena elettorale ha già trasformato la politica di varie nazioni di tutto il mondo. Perché un numero sempre maggiore di miliardari sta entrando in politica? Cos’è cambiato nella percezione degli elettori da considerare queste candidature come accettabili, razionali e – per molti – fascinose? Nel mio libro “Trump & co. Miliardari al potere nella crisi del neoliberismo” (Castelvecchi, 2017), ho cercato di fornire risposte, di evidenziare analogie e differenze. Almeno sei miliardari sono già arrivati al massimo potere politico, Babiš potrebbe essere il settimo. Prima di lui Trump negli Stati Uniti, Thaksin in Thailandia, Piñera in Cile, Macri in Argentina, Blocher in Svizzera e Berlusconi in Italia. Pur in contesti geografici e politici così diversi, quali caratteristiche li accomunano?

Tutti e sei i miliardari entrati in politica e poi arrivati al governo erano (sono) gravati da conflitti di interesse. Concessionari pubblici, proprietari di media o con rilevanti interessi nel mondo delle telecomunicazioni. Titolari di vasti imperi economici, inevitabilmente interessati da numerose decisioni politiche. Tutti questi miliardari si sono costruiti una popolarità pre-politica che è poi stata fondamentale nel forgiare, in un secondo tempo, la loro candidatura. L’impegno diretto nel mondo dello sport è stato un formidabile veicolo di notorietà e di pubblicità gratuita per presidenti di squadre di calcio come Berlusconi e Macri, così come il presenzialismo televisivo ha garantito a Donald Trump un livello di notorietà che gli ha permesso di surclassare molti dei misconosciuti candidati alla nomination repubblicana e di evitare ingenti spese in pubblicità elettorale al solo scopo di “farsi conoscere”. I miliardari entrati in politica amano descriversi come self-made men, quando invece, perlomeno le famiglie Macri, Shinawatra e Trump erano già tra le più ricche dei rispettivi paesi.

Costantemente identificatisi come alfieri anti-élite e anti-establishment, tutti e sette questi miliardari dovrebbero rientrare nella più classica definizione di populisti. In realtà, differenze più o meno profonde sono visibili. Piñera e Macri, anche in virtù delle caratteristiche storico-politiche sudamericane, hanno di fatto elettoralmente sconfitto dei candidati che erano gli eredi dei populisti dei rispettivi paesi. E mentre Blocher e Thaksin possono essere considerati “ideologicamente” populisti e forse sono i due che più hanno mantenuto le promesse concesse nelle campagne elettorali, Berlusconi, Macri, Piñera, Trump e lo stesso Babiš sembrano rientrare in una diversa definizione di populismo, cioè quella elaborata da Pierre-André Taguieff, secondo cui molti politici “adottano un arsenale retorico che rappresenta l’arma ideale per attaccare l’establishment e i politici tradizionali”. Non a caso, tutti questi miliardari entrati in politica amano marcare la propria distanza dai “politici di professione”, seppur in molti casi le loro stesse carriere politiche siano ormai particolarmente lunghe.

Il vero grande tratto comune di Trump & Co. è quello di promettere di condurre l’azienda Paese così come hanno condotto le loro imprese di successo. Essere i CEO (gli Amministratori Delegati) dell’attività di governo, trasferendo alla politica il loro stile d’impresa, i loro successi nel business e amministrando all’insegna dell’ottimismo imprenditoriale. L’aver costruito la propria immagine politica sulla biografia da businessman di successo è quello che più nel profondo accomuna Thaksin che riceve l’incarico da Re Bhumipol a Macri che quasi quindici anni dopo entra trionfalmente alla Casa Rosada o a Babiš che si muove nella fragile democrazia mitteleuropea. In questo intercettano indubbiamente un comune sentire popolare, astioso nei riguardi della politica tradizionale, dei politici di professione della burocrazia pubblica. Un desiderio di cambiamento che si materializza in una seduzione per le logiche di business, per i successi imprenditoriali, per i soldi. Tutti entrati a destra o a centro-destra dello spettro politico nazionale, la retorica identitaria e il nazionalismo hanno giocato un ruolo importante nella loro comunicazione politica, spesso in ottica anti-immigrati e in difesa dei valori «tradizionali» dei rispettivi paesi.

Questi miliardari hanno tratto vantaggio dalla disaffezione dell’elettorato per la politica old-style, proponendo il cambiamento, in un tipico artificio retorico del populismo demagogico. Stanno beneficiando dei cambiamenti indotti e naturali della politica contemporanea, ormai diventata meno ideologica e più personalizzata. Vincono elezioni scagliandosi contro la burocrazia e tutta una serie di corpi istituzionali e sociali intermedi (magistratura, sindacati, regole) che, alla fin fine, rappresentano quella complessità organizzata che ha sempre garantito il pluralismo. E che di fatto è il sistema di pesi e contrappesi, di equilibrio e garanzia dei poteri che contraddistingue le democrazie liberali moderne, figlie degli ideali illuministici. Alfieri del mito della velocità, promettono riforme, cambiamenti e rivoluzioni, spesso però troppo grandi per potersi materializzare in tempi consoni.

In questa tendenza di lungo periodo, che sta portando a un cambiamento stabile della politica contemporanea, è anche il «mestiere del politico» a essere messo in discussione. La sua stessa essenza, la professione, le caratteristiche intrinseche, che per secoli lo hanno contraddistinto. In questo senso, l’affermazione di miliardari, completamente a digiuno di politica, si inserisce in un quadro più ampio che comprende il vasto fronte dell’antipolitica, della “lotta alla casta”, della critica e del disprezzo verso l’élite politica tradizionale.

Marco Morini

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