SOCIETÀ

Quel che resta del Sudafrica al voto

Trent’anni dopo, non c’è molto da festeggiare. Il Sudafrica continua ad aggrapparsi a quell’immagine iconica di Nelson Mandela in trionfo, ma al tempo stesso ad arrancare tra mille rimpianti e contraddizioni, e distanze mai colmate, sempre rincorrendo idealmente il sorriso di quell’uomo coraggioso e gigantesco che aveva spalancato le porte a un sogno, represso per anni, di giustizia, di libertà, di equità sociale. Era il 9 maggio 1994, ed era appena stata scritta una delle più entusiasmanti pagine di storia del recente passato. “Madiba”, primo presidente nero del Sudafrica, capace di mandare definitivamente in archivio la vergognosa stagione dell’apartheid, così parlava nel suo discorso inaugurale: «Oggi stiamo entrando in una nuova era per il nostro paese e il suo popolo. Oggi non celebriamo la vittoria di un partito, ma la vittoria di tutto il popolo sudafricano. Il nostro paese ha preso una decisione: tra tutti i partiti, la stragrande maggioranza dei sudafricani ha dato mandato all’African National Congress di guidare il nostro paese verso il futuro. Il Sudafrica per cui abbiamo lottato, in cui tutti i nostri popoli, siano essi africani, di colore, indiani o bianchi, si considerano cittadini di un’unica nazione, è a portata di mano». Quel sogno sembrava effettivamente a portata di mano: ma oggi, trent’anni dopo, è doveroso ammettere che quella speranza non si è mai realizzata appieno. L’immagine del Sudafrica odierno è violenza fuori controllo, è corruzione endemica, è disuguaglianza da record del mondo ancora legata al colore della pelle, è povertà radicata che travolge quotidianamente oltre il 60% della popolazione, con un tasso di disoccupazione in continuo aumento (ormai sfiora il 33%). La Banca Mondiale ha messo in fila i problemi più gravi che la Rainbow Nation (come la definì l’arcivescovo, premio Nobel per la pace, Desmond Tutu) si trova tuttora a fronteggiare: le persistenti differenze razziali, le scorie mai definitivamente smaltite dell’eredità dell’apartheid, l’iniqua distribuzione della proprietà terriera, con l’80% della ricchezza complessiva del Sudafrica ancora nelle mani del 10% della popolazione: non è così che Mandela aveva immaginato il futuro della sua nazione.

Liberi di votare

Certo, resta la democrazia: e non è poco. La libertà di votare, di scegliere a prescindere dal colore della pelle. Accadrà ancora una volta tra pochi giorni, mercoledì 29 maggio, per le elezioni nazionali: poi la nuova Assemblea Nazionale, composta da 400 parlamentari, sceglierà il nome del prossimo presidente (quello attualmente in carica, Cyril Ramaphosa, è alla ricerca di un secondo mandato). Ma quel che appare certo è che dopo trent’anni di dominio assoluto della scena politica sudafricana, questa volta l’African National Congress non raggiungerà la maggioranza assoluta dei seggi (gli ultimi sondaggi stimano l’ANC attorno al 40%, nel 2019 aveva ottenuto il 57%), il che aprirà quasi certamente le porte a un inedito governo di coalizione. Sarà la misura della delusione degli elettori di fronte all’incapacità mostrata in questi decenni “perduti” dal partito che fu di Mandela di affrontare e risolvere i problemi persistenti del paese, dalla criminalità alla corruzione, dalla mancanza di lavoro alla scarsa qualità dei servizi offerti. Come se non fosse più “doveroso” votare per l’ANC, che in questi anni ha posizionato il Sudafrica, anche militarmente, al fianco di Cina e Russia, e che dal 2014 è membro del consorzio di economie BRICS (assieme a Brasile, Russia, India e Cina). Anche perché le condizioni in trent’anni sono assai cambiate. Stando ai dati pubblicati dalla Commissione elettorale indipendente del Sudafrica, gli elettori registrati per il voto del 29 maggio sono poco meno di 28 milioni, dei quali oltre 15 milioni sono donne. E il 42% è formato da elettori compresi nella fascia demografica tra i 18 e i 39 anni: vale a dire che i più “vecchi” erano appena bambini quando Mandela è diventato presidente. Gli altri appartengono alla born-free generation, i “nati liberi” dopo quel fatidico 1994. Un rapporto, appena pubblicato dalla Wits University (l’Università del Witwatersrand) di Johannesburg, affronta proprio il tema dell’evoluzione delle dinamiche di voto tra i più giovani: «L’assottigliarsi della lealtà verso l’ANC, soprattutto tra i giovani, aumenta la probabilità che cambino il loro comportamento di voto in futuro», scrivono i ricercatori della Wits. «Alcuni potranno scegliere di astenersi. Ma se gli elettori aventi diritto cominceranno a vedere i partiti di opposizione come sfidanti credibili, allora votare per loro rappresenterà un modo potenzialmente efficace per migliorare i risultati dello sviluppo. Poiché gli elettori delle generazioni più anziane continuano a diminuire rispetto alle generazioni “nate libere”, la narrazione del declino dell’ANC potrebbe potenzialmente spingere gli elettori strategici verso i partiti di opposizione in numero maggiore. Le elezioni del 2024 potrebbero essere il punto di svolta che consentirà ai partiti di opposizione di presentarsi come contendenti credibili nella formazione di governi di coalizione sulla scena provinciale e nazionale. Questi partiti sono pronti ad attirare i voti di coloro che hanno una “sottile” lealtà verso l’African National Congress. Man mano che i sentimenti di lealtà diminuiscono, l’ambiente elettorale sta diventando più favorevole per gli elettori a prendere in considerazione la reale possibilità di mettere i partiti di opposizione in posizioni di potere».

Ma difficilmente ci sarà spazio per un ribaltone. Anzitutto perché l’ANC continuerà a essere il partito più votato, e dunque il più rappresentato in Parlamento: impossibile, almeno per ora, ipotizzare un governo che non sia dominato dal partito di Mandela. Poi perché l’offerta politica alternativa resta ancora estremamente frammentata, con 70 partiti (31 dei quali all’esordio) che si sfideranno alle urne, molti dei quali con un “peso” quasi esclusivamente regionale. E infine perché John Steenhuisen, leader del principale partito di opposizione, l’Alleanza Democratica, d’ispirazione liberale, accreditato di un 22% alle urne, non ha escluso possibili accordi con l’ANC dopo il voto. Un’altra possibile (ma sarebbe tumultuosa) alleanza per il presidente uscente Cyril Ramaphosa potrebbe essere intrecciata con l’Economic Freedom Fighters (EFF), partito populista d’ispirazione marxista-leninista fondato nel 2013 da Julius Malema, ex capo dell’ala giovanile dell’ANC. Oppure con i nazionalisti Zulu dell’Inkatha Freedom Party (IFP), che potrebbero, in pura teoria, essere disposti a sostenere il governo nazionale in cambio della guida della provincia del KwaZulu-Natal, affacciata sull’Oceano Indiano, nel sud-est del paese. Poi c’è l’incognita di Jacob Zuma, ex presidente (dal 2009 al 2018), già condannato nel 2021 a 15 mesi di carcere per corruzione (ne ha scontati due, poi è stato posto in libertà vigilata) e costretto con disonore dall’ANC a lasciare l’incarico, che lo scorso dicembre ha fondato un nuovo partito, uMkhonto weSizwe (tradotto vuol dire “Lancia della Nazione”), il nome dell’ala paramilitare dell’African National Congress durante l’apartheid. Il vero obiettivo di Zuma, come rileva il professor Theo Venter, analista politico dell’Università di Johannesburg, non è quello di entrare in Parlamento ma di dar fastidio all’ANC, eroderne il bacino di voti (l’MK è accreditato di un 8,4%) e impedire così a Ramaphosa, che continua ad accusarlo, di riconquistare la presidenza.

Quindi, di fatto, una reale alternativa non c’è. Ci sono invece le tante questioni concrete da affrontare, e ciascuna forza le declina, a parole, a proclami, a promesse, sulla base delle proprie sensibilità: c’è chi propone di nazionalizzare le miniere e le banche, chi propone sussidi più o meno consistenti per i disoccupati, chi la creazione di “milioni di posti di lavoro”, oppure la riattivazione delle centrali elettriche all’origine dei frequentissimi blackout (anche con l’uso del carbone o incentivando i progetti per il nucleare). E poi la lotta alla corruzione, e il pugno duro contro il crimine violento, che resta una delle piaghe più profonde per il Sudafrica, assieme alla povertà. Secondo il portale web tedesco Statista, che cita la classifica 2023 dell’indice di pericolosità, «il Sudafrica è il paese più pericoloso dell’Africa, seguito da Somalia, Nigeria e Angola. L’omicidio e il crimine organizzato sono particolarmente diffusi in Sudafrica. Nel 2023, il Paese ha registrato uno dei più alti tassi di omicidi a livello globale, registrando circa 36 omicidi ogni 100.000 abitanti». In numeri assoluti: il 2023 si è chiuso con 27.368 omicidi, una media di 75 al giorno. Scrive al proposito l’Institute for Security Studies: «Il ministro della polizia ha riconosciuto che molte delle capacità che esistevano quando il paese ha registrato il suo più basso tasso di omicidi, nel biennio 2011-2012, sono state smantellate da coloro che sono stati successivamente in carica».

L’esclusione dei giovani dalla politica

Il presidente Ramaphosa, nel suo discorso sullo stato della nazione dello scorso febbraio, ha ammesso i fallimenti dell’amministrazione, scaricando gran parte delle colpe sul suo predecessore, Jabob Zuma: «Ci sono stati momenti in cui gli eventi al di là dei nostri confini hanno frenato il nostro progresso: la crisi finanziaria globale del 2007 e del 2008, il più recente conflitto Russia-Ucraina che ha contribuito all’aumento dei prezzi del carburante, del cibo, e che, di conseguenza, ha reso la vita più difficile a tutti i sudafricani. Ma ci sono stati anche momenti in cui gli eventi interni hanno scosso le fondamenta della nostra democrazia. Per un decennio, individui ai più alti livelli dello stato hanno cospirato con privati per rilevare e riutilizzare aziende statali, forze dell’ordine e altre istituzioni pubbliche. Sono stati rubati miliardi di rand che avrebbero dovuto soddisfare i bisogni dei sudafricani comuni. La fiducia nel nostro paese è stata gravemente erosa. Le istituzioni pubbliche sono state gravemente indebolite». Un’ammissione straordinaria, che però non riuscirà ad arginare l’emorragia di consensi per l’Anc. Anche perché le “chiavi” del voto sono sempre più nelle mani dei giovani. Global Voices, una comunità virtuale internazionale che raccoglie interventi di scrittori e attivisti per i diritti umani, ha raccolto i pareri di diversi giovani sudafricani, studenti e professionisti. Il quadro che ne emerge è eloquente: «È molto difficile per noi relazionarci con i partiti politici perché non ci vediamo riflessi. Le persone che parlano per noi sono per lo più dai 40 anni in su. È difficile trovare giovani che parlino ai giovani, che abbiano anche il potere di apportare cambiamenti. Siamo il più grande gruppo demografico di elettori e non siamo rappresentati. Questa sarà la nostra elezione più influente dal 1994. Se guardiamo a 30 anni fa, i nostri anziani e i nostri genitori avevano tutti un senso di speranza instillato in loro che il voto avrebbe cambiato la traiettoria del Sudafrica, spostandolo verso una democrazia da uno stato di apartheid. Oggi non riesco a nominare un solo leader che infonda la stessa speranza. Molti partiti hanno ottimi manifesti, ma quei manifesti non si riflettono nella realtà». Un monito per la politica, che non riguarda soltanto il Sudafrica. La Ichikowitz Family Foundation, con sede a Johannesburg, ha appena realizzato un sondaggio sulle intenzioni dei giovani elettori: appena il 49% si è dichiarato propenso ad andare a votare; circa metà degli intervistati sta progettando di emigrare, andare a vivere altrove perché “la corruzione sta erodendo le nostre speranze per il futuro”. Oltre un terzo degli intervistati ha inoltre dichiarato che sosterrebbe forme di governo non democratiche, con un aumento di nove punti rispetto a uno studio analogo condotto nel 2022. Se la politica sudafricana non saprà cambiare passo, sarà il Sudafrica, prima o poi, a cambiare.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012