SCIENZA E RICERCA

Clima e pandemia: quel legame pericoloso

Due anni sono già passati dall’insorgere di Sars-Cov-2 e della pandemia e il virus e la sua malattia non hanno ancora mollato la presa. Ma, grazie alla ricerca scientifica e ai vaccini prodotti, la situazione – al momento – si può definire sotto controllo.

Morti, sofferenza e restrizioni sembrano – ai più – un vago ricordo e salutiamo l’estate come periodo di grande serenità.

In parte, è vero e potremo guardare al futuro con maggiore serenità. Ma uno studio, recentemente pubblicato su Nature, mette in guardia su un mix di fattori che non possono essere sottovalutati: il cambiamento climatico e le pandemie.

Cosa c’entrano tra loro? Beh, parecchio. Tanto da spingere – esagerando il giusto – alcuni studiosi a parlare di una transizione dall’era dell’antropocene verso quella del pandemicene. In parole povere: un periodo non più caratterizzato dalle modifiche di Homo sapiens alla biodiversità (e al clima stesso) ma dalla nascita di nuove, e più frequenti, pandemie.

La scienza mette in guardia da tempo: andare a intaccare ecosistemi vergini, deforestare, entrare in contatto con animali che prima non condividevano il nostro stesso habitat porta solamente a maggiori rischi di adattamento di virus al corpo umano.

Ora, lo studio di Nature – con una proiezione avanzata da qui al 2070 – pone di fronte a scenari potenzialmente rischiosi.

La premessa: “Almeno 10.000 specie diverse di virus – dicono gli studiosi – hanno la potenzialità di infettare gli esseri umani, ma, al momento, la grande maggioranza circola – silente – negli animali selvatici”. Cosa accadrebbe se questi animali – a causa del cambiamento climatico – modificassero il proprio comportamento? Lo spiegano gli scienziati, attraverso un modello che traccia i potenziali hotspot di futuri salti di specie di virus, geolocalizzando i probabili spostamenti di 3.139 mammiferi rispetto al loro attuale habitat. Sì, perché non siamo solo noi – relativamente giovani abitanti del pianeta Terra – a cercare nuovi luoghi a caccia di risorse. E non saremo solo noi costretti a diventare dei migranti climatici a causa del climate change. Anche gli altri animali saranno costretti a spostarsi, rischiando di condividere con altre specie (e con noi) ambienti che prima erano separati. Bene, questi scenari, plausibili anche nel caso in cui si riuscissero a mitigare gli effetti del cambiamento climatico, dimostrerebbero come l’aggregazione di specie diverse in aree altamente popolate dagli umani (Asia e Africa soprattutto), aumenterebbe la probabilità di uno spillover (il salto di specie di un virus) di circa 4.000 volte. E non si tratta di un problema da scaricare sulle nuove generazioni (non dovrebbe essere così, a prescindere): “Sorprendentemente – spiegano gli autori – abbiamo realizzato che questa transizione ecologica potrebbe già essere in atto e che il tentativo di mantenere l’aumento delle temperature entro i 2 gradi C potrebbe non essere sufficiente per ridurre il rischio di spillover”.

I grandi sorvegliati speciali

E di tutte queste specie di mammiferi, loro – già sotto la lente di ingrandimento come indiziati per lo spillover di Sars-Cov-2 – potrebbero essere, involontariamente, i protagonisti anche di questi scenari: i pipistrelli. Non solo perché sono degli straordinari incubatori di virus, ma soprattutto perché gli hotspot previsti dallo studio vanno a intaccare aree densamente abitate da diverse specie di pipistrelli. Che, a loro volta, vista la loro unica capacità di volare, saranno in grado di spostarsi molto più lontano e più velocemente rispetto ad altri mammiferi. “Il volo dei pipistrelli – si legge nella ricerca – potrebbe essere una caratteristica precedentemente poco considerata capace di generare un legame forte tra migrazioni legate al clima e mescolamento di virus tra i mammiferi”. Non è difficile da immaginare: pure un “semplice” pipistrello non migratorio può viaggiare per più di un centinaio di chilometri nel corso della sua vita. Una distanza sicuramente maggiore di quanto un piccolo mammifero sia in grado di fare, a Terra, in 50 anni. “Ci aspettiamo – dicono ancora gli studiosi – che i pipistrelli possano essere i principali protagonisti dei nuovi contagi virali multi specie, in grado di distribuire agenti patogeni zoonotici anche in altre regioni”. Lo scenario potrebbe comunque essere attenuato da altri fattori biotici che bloccherebbero – in parte – le migrazioni, quali il comportamento sociale della specie e la disponibilità di cibo. Aspetti che non vengono considerati nello studio.

La mitigazione del cambiamento climatico e le conseguenze

Lo studio indica come nemmeno con il miglior scenario possibile di mitigazione del climate change si possa invertire una situazione già in atto: “La riduzione delle emissioni di gas climalteranti non può ridurreda sola la promiscuità virale guidata dal clima”. Attenzione, i ricercatori mettono in guardia dal credere che questa possa essere una scusa per l’inazione climatica. D’altra parte, virus o non virus, interrompere i tentativi di mitigazione comporterebbe dei danni comunque irreversibili: deforestazione, perdita di biodiversità, innalzamento dei livelli del mare, migrazioni umane, carestie e conseguenti instabilità geopolitiche. Questi risultati, semmai, indicano come sia ancora più urgente aumentare la sorveglianza sulle malattie degli animali in natura e sui nostri sistemi di previdenza sanitaria. Due nervi scoperti e tra le cause che ci hanno fatto cogliere impreparati nella sfida contro Sars-Cov-2.

Un’ipotesi sulla cronologia degli eventi

La variabile temporale non può essere mai esatta al 100%. Fatta questa premessa, lo studio cerca di ipotizzare la variabilità e concentrazione temporale delle possibili zoonosi virali, esplorando tre intervalli per i futuri impatti: 2011-2040; 2041-2070; 2071-2100. Ebbene, la maggioranza delle probabilità ricade sul periodo attuale, quello che abbiamo vissuto, stiamo vivendo e vivremo nei prossimi anni: dal 2011 al 2040.

Dobbiamo preoccuparci? Certamente sì. Tutto è perduto? Ovviamente no. Le variabili – lo dicono gli stessi ricercatori – sono molte anche se la tendenza pende sicuramente a sfavore della specie umana. Questo non è altro che un primo studio macro ecologico sul futuro che ci potrebbe aspettare. Altre ricerche permetteranno di chiarire altri aspetti, magari analizzando altri gruppi animali e allargando lo spettro delle conoscenze a disposizione. Le conclusioni sono sufficienti per alzare l’asticella della sorveglianza medica e di ricerca sui serbatoi naturali di virus e sui possibili salti di specie. Farlo negli hotspot già identificati e rendere i dati disponibili a tutta la comunità sarebbe già un ulteriore passo in avanti. D’altra parte, per quanto lo studio non possa e non voglia essere una spiegazione sulla pandemia di Covid-19 – iniziata poche settimane dopo l’avvio della ricerca – è innegabile che l’origine di Sars-Cov-2 veda i pipistrelli come iniziali possibili serbatoi. Manca ancora il bridge host – l’ospite ponte tra noi e loro. Potenziare questo campo di ricerca non potrà che fare del bene.

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