SCIENZA E RICERCA
Il clima e i parchi nazionali "ammalati": Yellowstone e gli altri
I danni causati dall'inondazione nello Yellowstone Park. Foto: Reuters
Il 13 giugno scorso il Parco Nazionale di Yellowstone ha chiuso al pubblico “per crisi climatica”: è finito sott’acqua. Un’alluvione da record ha devastato in particolare l’area nord dell’iconica riserva, distruggendo strade, ponti e trascinando con sé case. Così, all’alba dei suoi 150 anni, il primo parco nazionale mai istituito al mondo è stato costretto a chiudere i battenti dei suoi 5 ingressi e lasciare 10.000 turisti alle porte. Oggi l’anello sud è riaperto, mentre è questione di giorni la riapertura degli accessi a nord. Di certo la natura ha già ripreso il suo corso, ma occorre soffermarsi su quanto la crisi climatica stia colpendo le aree protette: proprio quelle che da più di un secolo stiamo cercando di proteggere dall’impatto della nostra specie.
6/13/22 at 11:12 a.m. UPDATE: All entrances to Yellowstone National Park CLOSED temporarily due to heavy flooding, rockslides, extremely hazardous conditions; Stay informed about road status and weather conditions. More: https://t.co/mymnqGMNN9 https://t.co/AIEGadQoZu
— Yellowstone National Park (@YellowstoneNPS) June 13, 2022
Il caso Yellowstone
Dal 10 al 13 giugno 2022 un flusso di aria calda ed estremamente umida, che di solito ha origine nei tropici, ha generato piogge torrenziali inattese, fatto salire le temperature e ha provocato così la fusione improvvisa di un gran quantitativo di neve sui monti del parco. Stando alle stime del Nasa Earth Observatory, oltre 100 mm di pioggia e altrettanti derivanti dalla neve fusa avrebbero inondato il parco: così il fiume Yellowstone avrebbe quasi quadruplicato la sua portata, raggiungendo il record di 51.000 piedi cubi al secondo (ovvero circa 1.400 metri cubi al secondo, pari a 1,4 milioni di litri al secondo) e raggiunto una piena di 4,23 metri, superando quella storica di 3,5 metri registrata il 14 giugno 1918.
Fondato il 1º marzo del 1872 dall’allora presidente Ulysses Grant, il Parco Nazionale di Yellowstone è un’area protetta gigantesca: oltre 8.900 km quadrati a cavallo tra Wyoming, Idaho e Montana. Un’area più grande dell’intera Corsica. O se vogliamo fare un paragone con i parchi italiani: Yellowstone è grande 12 volte e mezzo il Parco nazionale del Gran Paradiso, ed è 4 volte e mezzo il parco nazionale del Pollino che è il parco italiano più vasto. Famoso per foreste e geyser, oltre che per la sua fauna, Yellowstone è in realtà ricchissimo d’acqua: si contano oltre 1.000 tra fiumi e torrenti, tra cui il fiume Yellowstone e ben 290 cascate, e più di 600 tra laghi e stagni.
Ma a forgiare la sua storia non sono state solo l’acqua e le alluvioni. Il 14 giugno del 1988, in quella che era l’estate più secca del secolo con venti caldi che soffiavano a 80 miglia all’ora, un fulmine diede il via a un incendio incontenibile, che continuò a bruciare per due mesi, divorando il 36% dell’area del parco. La fauna, però, non fu troppo segnata: sui circa 40-50.00 cervi wapiti ne morirono solo 345, per fare un esempio. E poche decine tra alci, cervi muli e bisonti. Fu quella la prima volta in cui Yellowstone restò chiuso al pubblico.
Gli altri parchi statunitensi
Non è un caso che l’alluvione a Yellowstone siano arrivate mentre la costa orientale statunitense è in crisi per un’ondata di caldo. Una settimana prima delle alluvioni anche il parco più famoso di sempre ardeva per la siccità e come ricorda un editoriale del New York Times, gli effetti del cambiamento climatico si stanno già facendo sentire in molti parchi statunitensi. E nel prossimo futuro arriveranno a colpire quasi tutti i 423 parchi nazionali, che sembrano essere particolarmente vulnerabili all’aumento delle temperature. Uno studio pubblicato nel 2018 su Environmental Research Letters, aveva già lanciato l’allarme: le temperature nei parchi nazionali statunitensi stanno aumentando a una velocità doppia rispetto al resto della nazione a stelle e strisce. E la conta dei danni da cambiamento climatico è già cominciata.
Fa troppo caldo persino per i cactus saguaro, nel deserto di Sonora in Arizona. Qui gli incendi sono sempre più frequenti, e i saguaro – che sono adattati a incendi che ritornano con un intervallo maggiore di 250 anni – vengono superati da nuove specie aliene invasive, estremamente infiammabili, ben adattate a un intervallo di ritorno del fuoco di soli 3 anni, che sopravvivono alle fiamme grazie ai loro apparati radicali. Così il parco nazionale dei Saguaro rischia di perdere le piante che gli danno il nome, i “candelabri spinosi”, icone dell’arido west. Stessa sorte sta toccando al Joshua Tree National Park: anche qui gli alberi di Giosuè (meglio noti in Europa come Yucca) muoiono per l’aumento delle temperature e gli incendi sempre più frequenti. L’ultimo, disastroso, avvenuto nel 2020 nella vicina Mojave National Preserve, ha trasformato in cerini spogli più di un milione di alberi. Nemmeno le sequoie giganti tra il Parco Nazionale di Yosemite e il Sequoia National Park, nella Sierra Nevada in California, se la passano bene: negli ultimi due anni gli incendi hanno ucciso migliaia di sequoie giganti in varie località.
Osservati speciali, poi, sono i ghiacciai del Glacier National Park nel Montana, che si ritirano come i loro “cugini” europei. E neanche le zone umide più famose d’America riescono a sottrarsi alla crisi climatica: il parco nazionale delle Everglades, a sud-ovest di Miami, è sotto scacco dell’innalzamento del livello del mare che sta provocando la salinizzazione delle acque sotterranee, minacciando la fauna e la flora locale.
Gli alberi bruciati nella black summer australiana
Nel resto del mondo, Italia compresa
Non serve andare troppo a fondo per scoprire come la storia si ripete, ovunque. Ricordiamo tutti i devastanti incendi in Canada l’estate scorsa. O la black summer australiana con le immagini dei koala e dei canguri che scappano dalle fiamme: in pochi mesi sono stati bruciati dalle fiamme 12,6 milioni di ettari di foresta, tra cui il 54% delle foreste pluviali del Gondwana australiano, l’81% della Greater Blue Mountains Area (le fiamme hanno distrutto anche parte del Wollemi National Park), il 99% dell’Old Great North Road, (tutti siti protetti e patrimonio UNESCO) e circa metà di Kangaroo Island. Bruciano le grandi foreste primarie sotto gli interessi danarosi, e brucia il profondo nord: Alaska e Siberia. Con estati sempre più aride e siccitose, incendi naturali, dolosi o colposi trovano le condizioni ideali per divampare. Solo per fare qualche esempio italiano: nel 2017 un incendio ha interessato 1600 ettari nel parco nazionale del Vesuvio. Il 29 agosto 2020, la Riserva dello Zingaro in Sicilia è andata quasi completamente distrutta: sono stati divorati dalle fiamme 1400 ettari su 1600. E secondo i dati Ispra, il 32% dell’area andata bruciata nel 2021 è fatta da ecosistemi forestali ricadenti nelle aree protette italiane. Uno dei parchi nazionali maggiormente colpiti, per esempio, è stato il Parco Nazionale dell’Aspromonte, dove nel 2021 è andato in fumo circa il 10% del patrimonio boschivo, in particolare la Faggeta di Valle Infernale (patrimonio UNESCO) e il Bosco di Acatti. Con l'aumento delle temperature, in Italia anche i meravigliosi ghiacciai alpini si ritirano sempre più, mentre le Alpi sono sempre più verdi. Non a caso uno dei parchi italiani più minacciati dal cambiamento climatico si trova sulle Alpi ed è il parco nazionale del Gran Paradiso. Il nostro “orso polare” in questo caso è lo stambecco, specie simbolo del parco e vittima dei cambiamenti climatici: l’aumento delle temperature spinge gli animali a quote sempre più alte, dove l’erba è presente in minore quantità. Mentre la fusione precoce della neve, anticipa la stagione vegetativa che quindi non è più sincronizzata con il periodo delle nascite.
Soluzioni ne abbiamo?
Il parco del Gran Paradiso, che quest’anno diventa centenario, sta investendo nella ricerca per mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici e conservare ambienti e specie che da sempre lo contraddistinguono. E così stanno facendo molti altri parchi e riserve: negli Stati Uniti, un disegno di legge federale approvato (solo) l’anno scorso ha stanziato 1,7 miliardi di dollari per i parchi nazionali, anche per far fronte ai cambiamenti climatici. Il National Park Service sta programmando una serie di azioni: al Joshua Tree National Park si ripulisce il parco dalle specie di piante invasive; allo Yosemite si combattono gli incendi diradando le foreste e creando delle linee tagliafuoco; e c’è chi si occupa anche di traslocare alcune specie, come la trota toro al Glacier National Park. E in un futuro non troppo lontano potrebbe addirittura servire spostare le stesse aree protette: c’è infatti chi progetta corridoi ecologici tra le riserve già esistenti per aiutare piante e animali a spostarsi verso luoghi più favorevoli (cosa che stanno già facendo, dagli abissi alle cime delle montagne). Servono piani e strategie per il futuro delle aree protette. Parafrasando la frase di uno dei padri della biologia della conservazione, Michael Soulé: “la biologia della conservazione è la scienza della crisi… climatica”.
Per un secolo e mezzo i confini stabiliti, i cartelli, le leggi e i divieti sono riusciti – chi più, chi meno – a salvaguardare le aree protette dalla frammentazione e dalla degradazione dell’habitat, dalle specie aliene, dal bracconaggio, dall’inquinamento. Ma oggi una cosa è certa: i confini e le leggi attuali non sono più sufficienti. E non lo sono più da un pezzo. Nessun’area protetta è al sicuro dal cambiamento climatico. Serve un’inversione di rotta rapida e una scialuppa robusta. E il coraggio di farla, questa manovra.