Un ritratto, durante una manifestazione pre-elettorale, di Ferdinand Marcos Jr. Foto: Reuters
Il nuovo che avanza ha lo stesso nome del passato: quello di Ferdinand Marcos, che nelle Filippine (e non soltanto) è sinonimo di corruzione e crudeltà, di feroce ambizione, di sopraffazione, di appropriazione indebita, di sistematica violazione dei diritti umani. E di crimini, quali l’omicidio, la tortura, l’incarcerazione preventiva come metodo per silenziare oppositori politici, attivisti, sacerdoti, studenti, giornalisti, perpetrati impunemente per 21 anni. Eppure Ferdinand “Bongbong” Marcos junior, figlio 64enne dell’ex dittatore deposto da una rivolta popolare nel 1986 (nota come la People Power Revolution) e morto in esilio, alle Hawaii, nell’89, ha stravinto le elezioni presidenziali di lunedì scorso, surclassando l’avversaria Leni Robredo, vicepresidente uscente ed ex avvocata per i diritti umani. La vicepresidenza andrà a Sara Duterte, figlia del controverso presidente uscente, quel Rodrigo Duterte detto “the punisher”, il castigatore, che appena eletto, nel 2016, aveva lanciato la sua “guerra alla droga” e agli spacciatori, dichiarando: «Se distruggi il mio paese, ti ucciderò. Se distruggi i nostri figli, io ti ucciderò». È stato di parola: secondo una recente stima dell’International Criminal Court (ICC) le vittime degli “squadroni della morte” dal 2016 a oggi sarebbero stimabili in un numero compreso tra le 12mila e le 30mila, compresi molti minorenni. Un altro difetto di Duterte, sul quale pende un’indagine della Corte penale internazionale, era quello di far fuori gli avvocati, soprattutto coloro che si battevano per il rispetto dei diritti umani: ne sono stati ammazzati 66 sotto la sua presidenza (e molti sono sfuggiti agli agguati). Dai padri ai figli, la storia si salda e si ripete: voti uno, prendi due. In un Paese che ha dimostrato di aver, quantomeno, perso la memoria.
La famiglia Marcos torna così al potere, 36 anni dopo, passando dal portone principale. E alla testa del clan c’è ancora lei, Imelda, 92 anni, consorte dell’ex dittatore Marcos senior e protagonista di quella che fu definita una “dittatura coniugale”. Stravagante ex reginetta di bellezza, nota per i suoi eccessi, per la sua irrefrenabile capacità di spendere denaro (pubblico), soprattutto in opere d’arte e scarpe di lusso: si dice ne possedesse 3.000 paia. Nel palazzo presidenziale a Manila, il giorno della precipitosa fuga della famiglia in elicottero, in seguito alla rivolta popolare, ne furono trovate “soltanto” 1.200 paia. Ma la sostanza è altrove: il tesoro dei Marcos comprende, oltre a conti bancari, depositi fiduciari e palazzi vari sparsi in giro per il mondo, una collezione di oltre 150 dipinti, con opere di Picasso, Michelangelo e Van Gogh, alcune delle quali non ancora rintracciate. Scriveva nel 2016 la Presidential Commission on Good Government (PCGG), l’agenzia governativa fondata nell’86 dalla presidente Corazon Aquino, vedova di Benigno Aquino (leader dell’opposizione assassinato nel 1983 all’aeroporto di Manila), che s’insediò al posto di Marcos, proprio con l’obiettivo di recuperare le ricchezze sottratte dal clan del dittatore: «L’avidità (dei Marcos) era semplicemente senza precedenti, il saccheggio non mitigato, il modello incredibilmente spietato. E tutto questo di fronte alla continua miseria e sofferenza del popolo filippino». Il clan Marcos è accusato di aver saccheggiato, nei 21 anni di dittatura, qualcosa come dieci miliardi di dollari di denaro pubblico. Negli anni Novanta fu loro consentito di rientrare nel paese.
La strategia elettorale: negare e mentire
Bongbong Marcos è raggiante: «Anche se il conteggio non è ancora finito, la mia gratitudine a tutti voi non può aspettare», ha declamato in un videomessaggio diffuso su Facebook. «La mia gratitudine è per tutti coloro che ci hanno aiutato, per tutti coloro che si sono uniti alla nostra lotta, per i vostri sacrifici, per il vostro lavoro che ci avete donato». Ieri, a Manila, ci sono state anche pubbliche proteste, come quella di circa 400 studenti che contestavano la regolarità delle operazioni di voto, bruscamente interrotte dall’intervento della polizia. La Commissione elettorale (Comelec), ha tuttavia respinto le denunce presentate, compresa quella delle vittime della legge marziale istituita da Marcos senior negli anni ‘70 (qui un riepilogo di Amnesty International di quel che accadde all’epoca nelle Filippine) sostenendo che il voto si è svolto in modo “sostanzialmente corretto”. Del resto il margine di vittoria è talmente ampio da rendere marginale qualsiasi dubbio (anche lecito) sulla regolarità alle urne: con il 95% delle schede scrutinate Bongbong Marcos ha raggiunto circa il 60% di preferenze, pari a oltre 30 milioni di voti, più del doppio della sfidante Leni Robredo, che ne ha raccolti circa 14 milioni).
La clamorosa resurrezione/riabilitazione del clan Marcos, peraltro arricchito dalla “saldatura” con la famiglia Duterte, fa sorgere alcune domande. La prima: come è stato possibile? Come si possono dimenticare con simile rapidità gli orrori e i saccheggi di cui quelle famiglie si sono macchiate indelebilmente? Il voto di lunedì è sicuramente una drastica bocciatura per la “democrazia imperfetta” instaurata dopo la cacciata dei dittatori, evidentemente incapace di estirpare le piaghe della corruzione, del clientelismo e delle povertà per gli “esclusi”. Peraltro, il 50% degli elettori filippini ha meno di 41 anni, il che vuol dire che non hanno memoria “diretta” delle malefatte della dittatura di Marcos senior. Ma è vero anche Marcos junior (si dice consigliato dalla madre Imelda) ha adottato una precisa strategia elettorale: non partecipare ai dibattiti televisivi, non rispondere alle domande imbarazzanti, non parlare mai del passato, se non dipingendolo come un periodo di ordine e di prosperità, una sorta di “epoca d’oro” che ha portato alla costruzione di indispensabili infrastrutture per il Paese. Messaggi diffusi soprattutto attraverso i social media, proprio per raggiungere gli strati più giovani dell’elettorato. Compresa una rete di manipolatori di notizie, gruppi (anche stipendiati) incaricati di “disinformare sistematicamente” su tutto quel che riguarda il passato del clan Marcos. Strategia che si è rivelata vincente, nonostante la pochezza dei contenuti della sua proposta politica. Scrive la rivista americana The Diplomat: «La campagna di Marcos jr ha offerto pochi spunti su come intende affrontare i principali problemi del Paese. Né il suo sito web personale della campagna né quello del suo ticket UniTeam contengono molte informazioni sulla politica, né su come Marcos intenda affrontare le sfide del paese. Tuttavia, possiamo aspettarci una continuazione del vago, improvvisato programma Duterte degli ultimi sei anni. La vittoria sarà senza dubbio una buona notizia per Duterte: è improbabile che Marcos jr risponda alle richieste di perseguire il presidente uscente per migliaia di omicidi durante la sua sanguinosa repressione antidroga, né collaborare con le indagini in corso sugli omicidi da parte della Corte penale internazionale. Il ritorno dei Marcos a Malacañang (il palazzo presidenziale filippino) quasi certamente porrà fine anche agli sforzi di lunga data per rintracciare i miliardi di dollari saccheggiati dalle casse statali durante il governo di Marcos senior».
Manila stretta nella contesa Cina-Stati Uniti
Altro punto controverso: la politica estera. Le Filippine sono state colonia statunitense dal 1905 fino al 1946, quando venne loro riconosciuta l'indipendenza. E Ferdinand Marcos senior aveva potuto prosperare durante i 21 anni della sua dittatura anche grazie al sostegno degli Stati Uniti, che organizzarono perfino la fuga della famiglia nell’86, consentendo loro di insediarsi a Honolulu, alle Hawaii, portando con sé parte del tesoro trafugato, tra gioielli, lingotti d’oro, opere d’arte (e scarpe). Poi però Rodrigo Duterte, nel 2016, interruppe bruscamente le relazioni con gli Stati Uniti avvicinandosi a Pechino e firmando con la Cina 22 accordi di cooperazione. Con un rinnovato fiorire di tensioni, lo scorso anno, per una disputa tra Cina e Filippine sulla sovranità nel Mar Cinese Meridionale (c’è chi lo chiama Mare dell’Est, e chi Mare delle Filippine Occidentali). Quasi in contemporanea sono state riallacciate le relazioni con Washington, quando l’ormai ex presidente filippino ha ripristinatol’Accordo sulle forze in visita (VFA, un patto che regola la presenza delle truppe americane nella nazione del sud-est asiatico), peraltro ringraziando pubblicamente l’amministrazione Biden per le generose donazioni di vaccini prodotti negli Stati Uniti per far fronte alla pandemia da Covid-19. Come si comporterà adesso Bongbong Marcos? Sulla sua testa (e su quella della madre, già condannata a 11 anni di carcere e attualmente in libertà vigilata) pende un mandato d’arresto, emesso nel 2011 da un tribunale delle Hawaii, per inosservanza della sentenza che imponeva che i beni sequestrati alla famiglia sarebbero dovuti andare alle vittime di violazioni dei diritti umani. Peraltro, nel 1997, era stato già condannato (virtualmente) per evasione fiscale. Nulla d’irrisolvibile o di non “aggirabile”, soprattutto in funzione del ruolo futuro che le Filippine potrebbe avere nell’eterna e sempre più ramificata contesa geopolitica tra Stati Uniti e Cina. Come ha rilevato Gregory Poling, analista del Center for Strategic and International Studies: «Marcos jr potrebbe rilanciare il legame con Pechino, ma è improbabile che getti in mare l’alleanza degli Stati Uniti».
Dunque piedi in due staffe: dialogo aperto con Pechino (e con gli occhi ben aperti sulle sue possibilità d’investimento), ma anche rafforzamento dei legami (soprattutto militari) con Washington, alla ricerca di un punto d’equilibrio che appare non semplicissimo da trovare. E il limite principale potrebbe essere proprio la “statura politica” di Bongbong Marcos, privo di formazione specifica (gira voce che i suoi titoli di studio siano stati acquistati), cresciuto nel lusso sfrenato, che lo stesso padre nei suoi diari privati definiva “pigro e spensierato”. Dunque il rischio è che sia “manipolabile”. Alle sue spalle c’è Imelda, certo, ma con i suoi 92 anni non può garantire la necessaria solidità. E c’è la figlia di Duterte, Sara, che dopo un primo periodo di “retroguardia” potrebbe finire per crescere nella gerarchia d’importanza del palazzo presidenziale. «Il ritorno al potere della famiglia Marcos non è di buon auspicio per il futuro democratico liberale delle Filippine» scrive Richard Heydarian, giornalista, scrittore e opinionista. «Il pericolo reale è che il paese possa diventare un regime ibrido, per cui una coalizione onnipotente sovrintende alle elezioni semi-competitive dietro una facciata democratica. Ma questa elezione non dovrebbe essere motivo di panico. Se l’opposizione riuscirà a unirsi, potrebbe comunque fungere da baluardo contro la nuova amministrazione e accendere le braci della democrazia liberale». Sulla stessa linea Herve Lemahieu, direttore della ricerca presso il Lowy Institute di Sydney, che ha così commentato: «Marcos jr è una nave vuota. E questo può essere sia un rischio, sia un’opportunità».