SOCIETÀ

L’impatto ambientale dell’industria della moda

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, l’industria della moda produce dall’8% al 10% di tutte le emissioni globali di CO2, ovvero tra i 4 e 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera ogni anno.

Anche il consumo di acqua è un problema: l’Onu stima che il 20% dell’acqua sprecata a livello globale sia ascrivibile a questo settore, cui spetterebbe il secondo posto in questa classifica globale (dopo l’agricoltura). Una persona impiega circa 10 anni a bere 10.000 litri di acqua, che è quasi la stessa quantità necessaria a produrre un chilo di cotone per un paio di jeans.

Complessivamente si stima che il settore consumi circa 79.000 miliardi di litri d’acqua all’anno, anche se altre stime fanno oscillare questo valore dai 20.000 ai 200.000 miliardi di litri d’acqua consumati ogni anno.

Non solo, secondo un rapporto del National Institute of Standards and Technology (NIST) del dipartimento del commercio statunitense pubblicato quest’anno, l’impiego di prodotti chimici, tra cui i PFAS, nella filiera della moda è la seconda causa globale di inquinamento delle acque (sempre dopo l’agricoltura).

Un altro enorme problema riguarda il fatto che l’industria della moda è responsabile del 35% delle microplastiche che finiscono nei mari e negli oceani, equivalenti a circa 190.000 tonnellate di microplastiche all’anno provenienti soprattutto del poliestere usato nella cosiddetta fast fashion, o moda veloce, sicuramente l’anello più debole, dal punto di vista ambientale, di tutto il settore della moda.

Il poliestere e la fast fashion

Il poliestere è una fibra sintetica (un polimero, come la plastica) che viene ottenuta dalla lavorazione di combustibili fossili quali gas naturale e petrolio. Il suo impiego è massiccio nella fast fashion, che produce in serie indumenti trendy, economici, realizzati in tempi rapidissimi, spesso da lavoratori sottopagati, con materiali a basso costo. La loro vendita e circolazione è spinta anche dal marketing online degli influencer, inclusi quelli giovanissimi (nei video con l’hashtag #haul, un termine slang traducibile in “bottino” o “refurtiva”).

I dati del 2018 dicono che l’industria della moda impiega globalmente 75 milioni di persone e dall’inizio degli anni 2000 la produzione di vestiti è raddoppiata. Ogni consumatore acquista il 60% di vestiti in più rispetto a 20 anni fa, ma li tiene per la metà del tempo, riporta la Commissione economica per l’Europa (Unece).

Secondo uno studio pubblicato su Nature Reviews Earth and Environment la produzione di poliestere è quasi triplicata dall’inizio degli anni 2000, passando da circa 25 a circa 65 milioni di tonnellate prodotte ogni anno.

Tra i grandi marchi del mercato della fast fashion ci sono Zara (tra i primi ad adottare questo business model) e H&M. Di recente, tuttavia, sono stati surclassati da Shein, società cinese di vendita online (un e-commerce) valutata 100 miliardi di dollari, che tra luglio e dicembre 2021 ha aggiunto tra 2.000 e 10.000 nuovi modelli giornalieri alla sua app. Una volta eravamo abituati a una nuova collezione ogni stagione, quindi 4 all’anno: oggi la fast fashion ne produce più di 50 in un anno. In Cina l’industria tessile è la principale causa di inquinamento dell’acqua.

L’obsolescenza programmata di questi prodotti è dettata da una combinazione di materiali meno resistenti e gusti capricciosi della clientela, che si stufa presto del nuovo acquisto, passato di moda in men che non si dica: più di 50 miliardi di vestiti vengono indossati solo un anno per poi venire gettati, secondo il rapporto del NIST, e tra indumenti e prodotti tessili di scarto finiscono in discarica più di 92 milioni di tonnellate all’anno, riporta il lavoro su Nature Reviews. Contando che più di 60 milioni di tonnellate di vestiti vengono comprati ogni anno (il rapporto del NIST ne prevede 100 milioni al 2030) con un simile “ricambio” il settore non va mai in crisi di domanda.

Ricerca e riciclo

“Un cambiamento è drammaticamente necessario” si legge su editoriale di Nature. “Ma questo richiederà all’industria della moda di lavorare più duramente per abbracciare quella che è nota come economia circolare”.

I principi dell’economia circolare applicati alla moda si traducono in essenzialmente due fattori. Il primo è puntare su prodotti che durino più a lungo o su prodotti che utilizzino come materia prima materiale riciclato. Il secondo è sviluppare ed espandere l’uso di tecnologie che facilitino processi produttivi sostenibili, come appunto il riciclo. “C’è un grande ruolo da giocare per la ricerca, sia in ambito accademico sia industriale, per raggiungere questi e altri obiettivi” scrive Nature.

Il riciclo spesso prevede operazioni di separazione manuale delle fibre tessili da altre componenti degli indumenti (come bottoni o cerniere). Gran parte dei vestiti scartati finiscono in discarica perché non ci sono abbastanza macchinari che permettono di raccogliere, riciclare e riutilizzare le fibre tessili. Oltre a recuperare i materiali di scarto questi macchinari devono essere sviluppati per ottenere fibre riciclate di qualità sempre più alta.

Una raccomandazione dell’Unione Europea riporta che nel 2030 ci dovranno essere quantità minime obbligatorie per l’utilizzo di fibre riciclate nel settore tessile. “Questa è un’indicazione troppo vaga” sottolinea Nature: “senza obiettivi più specifici sarà molto difficile ottenere risultati conformi. La Cina, il più grande produttore tessile al mondo, ha un piano quinquennale di economia circolare per l’industria tessile”. Cina, Stati Uniti e Unione Europea dovrebbero collaborare più strettamente su questo, anche sul fronte della condivisione delle tecnologie che servono al riciclo.

Servono inoltre sistemi più accurati di riconoscimento e quantificazione delle microplastiche. Un altro aspetto su cui la ricerca può lavorare è produrre stime sui consumi di acqua più accurate, dato che quelle attuali oscillano di almeno un ordine di grandezza (da 20 a 200 mila miliardi di litri all’anno).

La ricerca deve anche lavorare per capire come questi cambiamenti debbano avvenire, non solo dal lato dei produttori, ma anche da quello dei consumatori e dei loro stili di vita. Un lavoro pubblicato su Nature Energy ad esempio, e condotto dall’università di Bonn in Germania, mostra che le persone a cui viene mostrato in tempo reale quanta energia viene consumata mentre si fanno la doccia in hotel consumano l’11,4% di energia in meno rispetto a coloro che non vedono il display. Potrebbe essere un’idea da considerare per il duro inverno che ci aspetta.

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