CULTURA

Moussa Konaté: il noir africano, una meraviglia da scoprire

State studiando l’Africa, in particolare quella immensa subsahariana (48 dei 53 Stati nazionali)? Siete in procinto di andare in qualche meraviglioso deserto di altre masse continentali (ognuna conosce quello specifico ecosistema con poca acqua)? Siete appassionati del multiforme e (ormai) universale genere letterario attualmente sostantivato come noir, giallo, policier, kriminal, thriller, mistery, e via sottodefinendo? Oppure, semplicemente, andrete presto in Mali, un meraviglioso paese francofono con un territorio grande quattro volte l’Italia, circa un terzo (venti milioni) della nostra popolazione, oggi senza sbocco al mare? Consiglio allora di procurarvi in biblioteca o in libreria testi del compianto signor Moussa Konaté, nato nel 1951 nella piccola Kita, città del Mali sulla rotta ferroviaria Senegal-Niger, e morto in Francia nella piccola Limoges il 30 novembre 2013. Il grande Konatè, dopo la laurea in Lettere all’università della capitale Bamako, ha insegnato e scritto a lungo, dal 1981 edito romanzi e novelle, saggi sociali e politici, opere per ragazzi, opere e sceneggiature per il teatro e per il cinema. Fra l’altro, onesti umili capolavori noir (unici suoi testi tradotti in italiano).

La serie di “gialli” intitolata al buon commissario Habib e alle inchieste “sulle rive del fiume Niger” conta solo sei romanzi, pubblicati con successo in Francia fra il 1998 e il 2015, cinque dei quali giunti in Italia fra il 2010 e il 2019. Partiamo dall’ultimo tradotto: Moussa Konaté, Omicidio a Timbuctu, traduzione di Silvia Scialanca (che firma un’ottima interessante nota finale: “La scatola nera del traduttore”), Del Vecchio Bracciano, 2019 (orig. 2014), pag. 245. Siamo a Timbuctu, appunto in Mali, alla fine del 2010. Nell’accampamento dell’allegra famiglia di Aghaly Ag Hussein è l’ora dello zuhr, mezzogiorno, il momento della preghiera islamica recitata, la seconda delle cinque preghiere quotidiane. Rhissa, il figlio maggiore del patriarca, appare preoccupato perché il suo dispettoso fratello Ibrahim non è ancora tornato, manca dalla mattina. La moglie del patriarca Fatma Walette Sidi-Mohamed è allettata da molte lune e gioca con Ahmed, il nipote di nove anni e terzo figlio di Rhissa, il quale, d’intesa con la propria moglie e con quella incinta di Ibrahim, va a prendere il dromedario per cercarlo sulla strada verso Timbuctu.

Dopo qualche chilometro Rhissa trova solo il corpo del fratello, sdraiato su un fico, appoggiato sulla schiena, coperto di sabbia e con il volto insanguinato, morto. Lo carica sul dromedario e va in commissariato. Lui, gli amici cittadini e la famiglia sono convinti che il responsabile debba essere individuato nella comunità apparentata (cugini che non si amano) di Saïf Ag Youssef. Intervento pubblico immediato? Spedizione punitiva privata? A fatica si concorda poco tempo per qualche preliminare procedura ufficiale. Il fatto è che quasi in contemporanea c’è una sparatoria contro un cittadino francese. Le due storie sono collegate? C’è un rischio incombente di terrorismo islamista? Di traffico di droga e rapimenti? Si muove l’ambasciata francese. Nella capitale Bamako si convoca una riunione al vertice e chiedono al commissario Habib di andare direttamente sul posto, accompagnato da due giovani, il suo fido assistente e un agente dei servizi francesi. Partono in battello verso l’area fluviale del Niger, un paesaggio indimenticabile. L’indagine fra i tuareg avrà bisogno di conoscenze e introspezioni sofisticate, come nello stile del mitico personaggio.

La narrazione è in terza varia al passato, prevalentemente sui poliziotti. Investigare in Mali è diverso che indagare in Francia: i costumi variano da una regione all’altra; l’islam e il cristianesimo convivono e si mischiano con l’animismo; il Mali di ieri non si ritiene vinto dal Mali dei tempi moderni; c’è sempre un qualche marabutto indovino del quale tenere (poco) conto; condurre un’indagine a cavallo, sul dorso di un dromedario o a piedi, nel deserto, non è proprio la stessa cosa che correre in macchina in una città francese.

Anche questo romanzo di Konaté può essere definito come una “meraviglia” di stile e contenuto, di ritmo e dialoghi, competenti ironici originali. Il probo e maturo protagonista è Habib Kéita, commissario capo della squadra anticrimine (qui prossimo alle dimissioni), discende dalla stirpe dell’imperatore fondatore della grande etnia dei mandingo, ricchi importanti studi dai bianchi in Francia (e dai rossi a Bordeaux, ma in patria si è riconvertito all’acqua); ha una cheta discreta moglie tradizionale e tre cari giocosi figli (qui il maggiore è adolescente). L’erede prediletto è il giovane intrepido collaboratore ispettore Sosso Traoré (qui promosso capitano). Cucina, bevande, melodie appartengono alla splendida leggendaria Timbuctu: vien voglia di partire, portatevelo, che la destinazione sia un deserto o proprio il Mali!

Meurtre à Tombouctou è il penultimo romanzo della serie Habib. Il primo e il secondo furono pubblicati entrambi nel 1998 e sono strettamente connessi. In L’assassin du Bianconi il testardo commissario e il fedele collaboratore devono capire chi ha ucciso (con il cianuro) i tre cadaveri (il primo donna, tutti apparentemente naturali) rinvenuti in due giorni nelle latrine del povero quartiere di Banconi. Discernendo escrementi e superstizioni, escrescenze e speculazioni. In L’honneurs des Kéita i due devono riuscire a capire da dove, come, quando e perché è capitato un cadavere massacrato in una vasca alla periferia della capitale. Prendono il treno per il villaggio ai bordi di un affluente del Niger, vi restano tre giorni, scoprono complessi intrecci gerarchici familiari sessuali magici onorevoli di un’antica comunità. La narrazione è sempre in terza sui due poliziotti. La meritoria edizione italiana di Del Vecchio risale al 2010 (con glossario finale) e continua subito dopo nel 2011 (con poche brevi note finali). Entrambi i romanzi mantennero il titolo originale francese e furono tradotti da Ondina Granato.

Il terzo romanzo della serie arriva molti anni dopo: L’Empreinte du renard è del 2006, uscito in italiano già nel 2012, a ridosso degli altri, sempre con Del Vecchio (e traduzione di Granato). Habib e Sosso vengono inviati a indagare su un lontano duello mortale e altre strane morti. Fanno lezione di umiltà di fronte a geografia e storia ancestrali. I Dogon sono una popolazione di circa 240.000 individui in villaggi di fango su una regione a sud del Niger, prevalentemente coltivatori di miglio, hanno una particolare abilità come fabbri e scultori, durante il XIV secolo si spostarono nella zona della falesia di Bandiagara. Il titolo possiede molto senso: Kodjo, il “gatto” del villaggio spiega: “le volpi portano la parola di Amma, il nostro Dio. Niente di quello che succede sulla terra può sfuggirgli. Le volpi sanno tutto”. Originale è pure l’arma scelta per i delitti (contro un progetto di villaggio turistico).

L’autore già da venticinque anni è molto conosciuto e premiato in Francia, pubblicato anche da editori importanti e in serie famose, l’esordio proprio nella Serie Noire di Gallimard nel 2002. Mentre diventava celebre in Europa fondò in patria anche una piccola casa editrice per diffondere nelle zone rurali pubblicazioni scritte nelle diverse lingue presenti in Mali. Il primo tentativo di tradurlo in italiano avvenne nel 2010 (con glossario finale) per le Edizioni e/o che tradussero dal francese (con Valeria Malatesta) il quarto romanzo della serie, uscito per Fayard l’anno precedente: La Malédiction du lamantin ovvero “La maledizione del dio del fiume”. La trasferta professionale di Habib e Sosso si svolge in un villaggio vicino Bamako sulle rive del fiume Niger-Djoliba: a Kokrini vivono i pescatori di etnia bozo, profondi conoscitori del mondo acquatico. Maa il Lamantino (da non confondere con Allah) è appunto il (loro) dio delle acque e forse i corpi senza vita del capo villaggio e della sua sposa, trovati dopo una lunga siccità e la successiva contingente tempesta, sono una sua “vendetta”. E forse no. Ormai nella lettura si ride pure di gusto: grazie a pratica ed esperienza, i dialoghi fra i due sono una chicca continua. E, ancora una volta, per indagare bisogna epicamente destreggiarsi fra presagi e crimini, fra sospetti e credenze, fra prove attuali ed eventi leggendari (qui del 1965).

In Francia uscirono poi postumi altri due romanzi di Konaté, da una parte il citato Meurtre à Tombouctou (2014, in italiano nel 2019), dall’altra L'Affaire des coupeurs de têtes (2015), non ancora tradotto e sesta ultima avventura della serie. Letteratura di genere, certo, consapevolmente, ma differente da quella che mai avete potuto leggere, africana subsahariana. Niente a che vedere con il giallo classico, con l’hard-boiled, con il polar o con il noir occidentale, pur se è evidente che questi generi o sottogeneri sono stati tutti sentimentalmente digeriti. Konaté mette in campo un’altra portentosa cultura civile, che prevede (come ogni cultura sociale) pure crimini e misfatti, individuali e collettivi, per ragioni sia contingenti che strutturali. A proprio modo, assolutamente non esotico né prettamente pedagogico. La racconta facendoci conoscere tradizioni e abitudini, simboli e codici, corruzione e integralismo, assetti di famiglie e poteri, storia e geografia del Mali e di parte dell’Africa. Noir nel senso di romanzi che fanno capire differenze e fratture della società in cui sono ambientati.

Konaté è giustamente presente in enciclopedie dedicate al genere. Non si tratta del bisogno esotico di trovare almeno un giallista in ogni letteratura nazionale. Il Mali come altri paesi è stato teatro di guerre e conflitti, anche negli ultimi decenni. I poteri istituzionali sono figli della decolonizzazione ma non possono essere tutti interpretati con le categorie occidentali, né in quanto democrazie né in quanto oligarchie. La letteratura noir è contemporanea al proprio tempo e al proprio spazio, serve a scandagliare le pieghe di quella specifica società e di quelle radicate comunità, non è un banale e irritante cliché con regole ripetibili come una matrice o un logaritmo. Leggendo Konaté capiamo meglio il Niger e il Sahara, i lontani connessi Atlantico e Mediterraneo, i maliani e i francesi, l’Africa e l’Europa, le diversità biologiche e le multiculturalità meticce dell’unica specie umana residua, noi sapiens, qualunque sia l’incarnato che indossiamo, qualunque sia il “crimine” di cui qualcuno di noi si è macchiato verso altri di noi.

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