SOCIETÀ
Taiwan, Cina e Stati Uniti: tensioni militari e politiche per il "tour" di Nancy Pelosi
La bandiera di Taiwan. Foto: Reuters
Gli analisti non hanno dubbi: Taiwan resta in assoluto il dossier più critico nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Il più sensibile, il più pericoloso. Quello che potenzialmente sarebbe in grado di cambiare il corso del ventunesimo secolo. E basterebbe un solo ulteriore passo, da una parte o dall’altra, anche simbolico, a scatenare una reazione le cui conseguenze sono oggi difficilmente calcolabili, ma facilmente prevedibili. Le posizioni in campo sono chiare. C’è Taiwan, la più grande di un gruppo di isole a 80 miglia dalla costa sud-est della Cina, 23 milioni di abitanti, leader mondiale nella produzione di microchip, che rivendica una totale indipendenza da Pechino, autonomia cominciata nel 1949, al termine della dominazione del Giappone, che a sua volta l’aveva ottenuta nel 1895 (dopo la prima guerra sino-giapponese) in base al Trattato di Shimonoseki (qui la ricostruzione degli eventi storici). Ma il presidente cinese Xi Jinping la vede diversamente. Lui ha in mente il progetto di ricostituzione della “Grande Cina”, che comprende anche Taiwan (e i suoi affari, non è soltanto questione di terra o di ideologia). E non è disposto ad alcuna mediazione: «L’isola tornerà sotto il nostro dominio, se necessario anche con la forza». Anche se “tornare” non è il verbo giusto: Taiwan è stata “ceduta” dalla Cina 127 anni fa, al termine di una guerra persa. Sotto la guida del Partito Comunista Cinese, per dire, la Cina non ha mai controllato Taiwan. Eppure il presidente Xi continua a ripetere, anche pochi giorni fa in un colloquio telefonico con il presidente americano Joe Biden, che la posizione della Cina su Taiwan è coerente: «È ferma volontà di oltre 1,4 miliardi di cinesi salvaguardare fermamente la sovranità nazionale e l'integrità territoriale della Cina». Con inclusa la solita minaccia diretta a Washington: «Coloro che giocano con il fuoco finiranno per bruciarsi». Il proposito di Pechino è chiaro, la variabile semmai è capire quando. Infine gli Stati Uniti, impegnati a difendere l’autonomia di Taiwan («Gli Stati Uniti si oppongono fermamente agli sforzi unilaterali per cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan», ha scritto la Casa Bianca al termine dell’ultimo colloquio tra i presidenti), che è anche un modo concreto per ostacolare i progetti d’espansione cinesi. Dunque, dopo anni di ambiguità, ora c’è un sostegno pieno (e non privo di pericoli) a Taiwan, alla sua richiesta d’indipendenza e di democrazia. Un supporto non soltanto ideologico, ma anche bellico: gli Usa da anni riforniscono di armi l’esercito taiwanesi. Lo stesso presidente Biden, lo scorso maggio, durante il suo viaggio in Asia, aveva ribadito che gli Stati Uniti hanno un impegno nel difendere militarmente Taiwan. Dunque un perfetto stallo. Sono tutti armati (molto). Il primo che fa una mossa rischia di scatenare un putiferio. Perciò la Cina attende, come Taiwan, come gli Stati Uniti.
Il controverso viaggio in Asia di Nancy Pelosi
Ed è in questo scenario che si colloca la notizia dei giorni scorsi, poi smentita, poi chissà, di un possibile viaggio a Taiwan della presidente della Camera dei Rappresentanti statunitense, Nancy Pelosi. Il valore reale dell’eventuale visita è pari a zero (il sostegno americano a Taipei è già esplicito e ben visibile), ma avrebbe comunque una forte valenza simbolica. Pechino, l’ha già detto, non lo accetterebbe. «Se la parte statunitense insisterà per fare la visita e sfiderà la linea rossa della Cina, incontrerà contromisure risolute», ha ribadito la scorsa settimana il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian. Dopo giorni di imbarazzo e di lavoro per le diplomazie, Pelosi ha presentato il suo tour in Asia, cominciato sabato scorso, annunciando formalmente diverse tappe (Singapore, Malesia, Corea del Sud e Giappone, ma senza citare Taiwan), dove si svolgeranno “incontri ad alto livello per discutere come promuovere interessi e valori condivisi, inclusa la pace”. Media cinesi hanno invece fatto filtrare la notizia, ripresa da diversi organi di stampa, che in realtà giovedì prossimo, 4 agosto, Nancy Pelosi potrebbe atterrare a Taipei, probabilmente con il pretesto di un rifornimento di carburante per poi raggiungere la tappa successiva. Secondo altri media l’incontro con la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, potrebbe avvenire mercoledì 3 agosto. La Casa Bianca non ha commentato in alcun modo le indiscrezioni.
Per Pelosi, Taiwan è un punto centrale della sua azione politica, da sempre critica verso l’operato del governo cinese (nel 1991, durante una visita in piazza Tiananmen, srotolò uno striscione in memoria dei manifestanti uccisi nel 1989), in prima fila per denunciare la soppressione della democrazia a Hong Kong. Ma quell’impegno, oggi, rischia di avere un prezzo troppo alto, alla luce anche della carica che ricopre (dopo Kamala Harris è la seconda in “linea di presidenza”). E comunque sarebbe il politico statunitense di grado più alto a visitare Taiwan dal 1997 (allora fu Newt Gingrich, ex speaker della Camera dei Rappresentanti). Una visita che inizialmente la Casa Bianca non aveva smentito. Al punto che il Washington Post aveva scritto, la scorsa settimana, in un editoriale: «L’esercito americano sta valutando la possibilità di spostare portaerei o inviare aerei da combattimento per il supporto aereo ravvicinato come copertura di un potenziale viaggio della presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan». Come risposta, la Cina ha lanciato l’ennesima esercitazione militare, questa volta nel Mar Giallo, al largo dell'isola di Pingtan nella provincia del Fujian, proprio di fronte a Taiwan. Esercitazioni che dureranno 14 giorni e prevedono l’impiego di “proiettili veri”: a tutte le imbarcazioni sarà vietato l’accesso alle acque interessate.
Gli obiettivi di Pechino
E così, tra minacce e ritorsioni annunciate, la tensione sta crescendo oltre il limite di guardia, mentre Taiwan sta addestrando il suo esercito proprio in funzione di una futura, imminente invasione. Che poi: è la Cina chiamata a reagire a un “salto di qualità” della diplomazia americana? O piuttosto è vero il contrario, vale a dire il pretesto della presunta visita di Nancy Pelosi piazzata lì ad arte proprio per spegnere sul nascere ambizioni e velleità di attacchi cinesi a Taipei? Chi sta avvertendo chi? Una sola cosa è certa: né Pechino né Washington vorrebbero scivolare in un conflitto armato che coinvolgerebbe (e sconvolgerebbe) l’ordine mondiale. Lo scorso anno la Cnn riportava l’analisi del sinologo Willy Lam: «Entrambe le parti sostengono ufficialmente di voler evitare lo scontro diretto, ma nulla fanno per evitare che non si verifichino conflitti. E questo crea naturalmente le condizioni per un ulteriore deterioramento dei rapporti». La Cina di certo non arretrerà. Xi Jinping punta chiaramente a rafforzare la sua narrazione “nazionalista” in vista del 20° Congresso del Partito comunista cinese (Pcc), il prossimo autunno, nella speranza di ottenere un terzo mandato (assai probabile) che lo consacrerà come il leader cinese più longevo degli ultimi decenni. E l’ambizione del presidente cinese è cresciuta di pari passo con la potenza militare dell’esercito. Non c’è alcun dubbio che, militarmente, nonostante le forniture di armi americane, Pechino possa conquistare Taiwan in maniera relativamente semplice.
Il “contrappeso” americano
Il problema, o meglio il contrappeso, è: quali conseguenze potrebbe avere un simile passo? Davvero gli Stati Uniti sono pronti a scatenare una guerra (che diventerebbe immediatamente mondiale, nucleare) pur di difendere l’autonomia di un’isola poco più grande della Sicilia? La partita diplomatica, non da oggi, si gioca su questo delicatissimo equilibrio. Ma le recenti uscite, piuttosto esplicite sull’argomento, dell’amministrazione Biden potrebbero aver impresso un’accelerazione all’escalation di tensione. Come scrive il New York Times in un editoriale particolarmente critico verso il Presidente pubblicato lo scorso 28 luglio: «La lunga “ambiguità strategica” degli Stati Uniti ha lasciato il posto a una confusione strategica. Le dichiarazioni errate del presidente Biden su Taiwan stanno minando la politica attentamente concepita che ha mantenuto la pace per decenni. Ha ripetutamente affermato che gli Stati Uniti si sono impegnati a difendere Taiwan. Lo scorso novembre, il signor Biden ha osservato che Taiwan è “indipendente”. Gli scambi ufficiali USA-Taiwan, la cooperazione militare e i transiti di navi da guerra statunitensi nello Stretto di Taiwan, che un tempo erano tenuti segreti, vengono resi pubblici. Una singola scintilla potrebbe innescare questa situazione combustibile in una crisi capace di degenerare in un conflitto militare. La visita di Nancy Pelosi a Taiwan potrebbe fornirlo». Con una domanda che resta sullo sfondo: la visita di Nancy Pelosi a Taiwan era stata concordata con Biden? Se si trattasse di un’iniziativa personale, su un tema così delicato, saremmo di fronte a una “frattura” senza precedenti all’interno dell’amministrazione Biden.
Nervosismo alle stelle dunque. Con riflessi che arrivano anche nell’Unione Europea, con le diplomazie che stanno prendendo in considerazione l’ipotesi che la situazione “possa sfuggire di mano”. Il quotidiano Politico riporta la riflessione di Boris Ruge, vicepresidente della Conferenza sulla sicurezza di Monaco: «Gli scenari peggiori a volte si verificano, come l’invasione russa in Ucraina. Gli europei farebbero bene a prepararsi alle contingenze, sostenendo Taiwan pur rimanendo in stretto contatto con Pechino e tentando di diminuire la tensione». Mentre Urmas Paet, vicepresidente della commissione per gli affari esteri del Parlamento Europeo, ritiene che «l’intensificarsi della guerra in Ucraina ha aumentato il rischio di aggressione cinese verso Taiwan in modo esponenziale. La piena cooperazione tra UE e Stati Uniti è molto importante sia in termini di aggressione russa contro l’Ucraina, sia in relazione alle azioni della Cina nel suo vicinato». Mentre hanno sollevato polemiche le parole contraddittorie di Jorge Toledo Albiñana, che dal prossimo mese sarà ambasciatore dell’Unione Europea in Cina: «L’UE non difende l'indipendenza di Taiwan, ma la riunificazione pacifica. Crediamo che dovrebbe esserci una sola Cina, ma in caso di invasione militare abbiamo chiarito che l’Unione Europea, con gli Stati Uniti e i suoi alleati, imporrà misure simili o addirittura maggiori di quelle che abbiamo adottato contro la Russia».