Una manifestazione contro la violenza di genere
“Ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”. Così l’Assemblea generale delle Nazioni Unite definisce la violenza di genere all’articolo 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne. Mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità la considera un grave problema di salute pubblica e una violazione dei diritti umani delle donne.
Quando si parla di violenza di genere, di norma, si fa appello ai dati per restituire la dimensione del fenomeno. E i dati rendono l’idea: secondo le stime dell’Oms, circa una donna su tre a livello mondiale ha subito violenza fisica o sessuale da parte del partner, o di altra persona, e circa un terzo di quante hanno avuto una relazione riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale da parte del proprio compagno nel corso della vita. Ben il 38% dei femminicidi, a livello globale, è commesso dal partner. Nel nostro Paese, secondo i dati Istat, negli anni 2017-2019 gli accessi al pronto soccorso di donne con diagnosi di violenza sono stati più di 19.000 (oltre 16.000 le vittime). Il 2020, poi, è stato l’anno peggiore dal 2000 in termini percentuali per i femminicidi: l’incidenza della componente femminile sul totale degli omicidi è stata del 40,6%, cioè la più alta di sempre e dei 91 femminicidi totali registrati nel 2020, 81 sono stati commessi in ambito familiare, l’89% del totale.
I dati qui riportati non hanno pretesa di esaustività, ma intendono rendere i contorni di un fenomeno, molto complesso, che deve essere considerato nella sua dimensione sociale, giuridica, sanitaria e politica. Negli ultimi decenni un numero sempre maggiore di studi ha iniziato a indagare la violenza maschile contro le donne anche in una prospettiva storica, considerando per esempio il modo in cui nei secoli precedenti il diritto ha legittimato o sanzionato gli atti violenti; esaminando le pratiche sociali di complicità o stigmatizzazione individuabili sulla scena della violenza, per esempio da parte del vicinato o delle autorità civili o religiose; infine, analizzando anche la storia delle emozioni che spesso rappresentano un motore importante nella violenza contro le donne.
Dell’argomento abbiamo parlato con Laura Schettini, ricercatrice del dipartimento di Scienze storiche geografiche e dell’antichità dell’università di Padova, recentemente intervenuta a un incontro nell’ambito delle Conversazioni a Casa Cornaro organizzate dal Centro di Ateneo Elena Cornaro. La docente ha curato, rispettivamente con Simona Feci e Domenico Rizzo, due volumi dal titolo La violenza contro le donne nella storia (Viella 2017) e Maschilità e violenza di genere (nel numero monografico di Genesis. Rivista della Società italiana delle storiche).
“La ricerca storica negli ultimi 30-40 anni ha dato un importante contributo allo studio e alla comprensione della violenza e anche a una migliore comprensione delle possibili politiche di contrasto alla violenza nelle società contemporanee. Innanzitutto, la ricerca ha portato alla luce la dimensione della variabilità e del cambiamento che è uno degli elementi centrali della ricerca storica e del racconto del passato e che si fa particolarmente interessante per il discorso sulla violenza”. Spesso nel dibattito pubblico, sui media e sui giornali, ci si riferisce alla violenza sulle donne come a un fenomeno emergenziale che irrompe improvvisamente nelle società odierne o nella vita del singolo. “Si tratterebbe di un raptus, di un eccesso di passione, di sentimento; viene spesso trattato in termini di patologia, di follia, dunque come qualcosa di straordinario, sia in relazione al singolo che alla società”. La ricerca storica invece permette di individuare la “lunga durata” della violenza e al tempo stesso il modo in cui la violenza maschile è mutata nel tempo. “Questa dimensione è importante, perché ci lascia sperare e immaginare che non tutto quello che accade oggi necessariamente debba avvenire anche domani, che c’è una possibilità di intervento, di contrasto e mutamento degli scenari. Ci dà inoltre anche la possibilità di capire quali sono le genealogie della violenza, quali sono i luoghi, le dimensioni, le relazioni, i fenomeni che la producono, così come l’hanno prodotta nel passato”.
Guarda l'intervista completa a Laura Schettini. Montaggio di Elisa Speronello
Schettini pone in evidenza il legame molto stretto tra violenza e disuguaglianza, che l’indagine storica ha individuato. La violenza non va considerata come un fenomeno isolato, né come un gesto improvviso, ma come qualcosa che sta dentro a un sistema di relazioni. Serve dunque guardare a quelle relazioni, in particolare alle relazioni tra uomini e donne, che storicamente sono state costruite nel segno della diseguaglianza, e su quelle bisogna intervenire. Un aspetto, questo, su cui insiste la Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) che definisce l’uguaglianza di genere un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne. Tale violenza, si legge fin dal preambolo, è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione.
“La ricerca storica – continua Schettini – ha centrato la sua attenzione anche su alcuni luoghi in particolare, come la famiglia, e la dimensione della sessualità. Sappiamo come questi due ambiti siano a tutt’oggi quelli in cui maggiormente si esprime la violenza maschile contro le donne”. E ciò non è casuale dato che queste sono le dimensioni in cui la costruzione gerarchica delle relazioni si fa più sentire. Intervenire, dunque, sull’uguaglianza all’interno delle relazioni e della famiglia sarebbe molto importante, secondo la docente, così come lo è stato storicamente, e analogamente intervenire a livello educativo, nella cultura della sessualità, dato che il corpo delle donne non deve essere considerato come un bene a disposizione o come un patrimonio degli uomini.
Un ulteriore elemento su cui soffermarsi è la dimensione delle relazioni, in particolare la relazione tra uomini. “La violenza non è un gesto isolato, non è qualcosa che irrompe improvvisamente nella storia, nella biografia del singolo e con ciò mi riferisco anche al fatto che esiste un’educazione, una familiarizzazione alla violenza contro le donne nella costruzione della mascolinità, del genere maschile a cui bisogna necessariamente guardare se si vogliono mettere in atto delle politiche di contrasto efficaci. Solitamente tanto nella ricerca storica quanto nelle politiche di contrasto attuali, si guarda spesso alle donne. Si presta attenzione a cosa hanno detto, a come si sono comportate, a come hanno reagito, a come sono uscite da percorsi di violenza.
Al contrario, molto poco si guarda al genere maschile. Credo sia importante, invece, esaminare il modo in cui si produce questa familiarizzazione alla violenza, questa pretesa sul corpo e sulla vita delle donne nel divenire uomini”. Su questa linea, l’Organizzazione mondiale della Sanità riconosce, per esempio, che gli uomini hanno maggiori probabilità di perpetrare violenza se hanno assistito a episodi simili in famiglia contro le loro madri o sono stati maltrattati da bambini, se il proprio codice normativo ammette la disuguaglianza di genere e li porta ad accettare la violenza e l’abuso sulle donne, infine se possiedono un livello di istruzione basso o fanno abuso di alcol.
Quando si parla di violenza sulle donne è fondamentale poi considerare i contesti, perché la violenza non è un fenomeno universalmente dato che assume sempre le stesse forme e vede sulla scena gli attori disposti sempre allo stesso modo. “Non possiamo avere una concezione universalista della violenza”. Secondo Schettini ha un ruolo, infatti, anche lo status sociale sia della vittima che dell’autore della violenza e influenza il modo in cui la società percepisce (o non riconosce) la violenza. “Ci siamo resi conto che non basta guardare al mondo delle norme per capire ciò che una società tollera o non tollera in termini di violenza maschile contro le donne, ciò che stigmatizza o invece legittima, perché ci sono in gioco tante altre variabili”. La docente porta l’esempio della società inglese del XVIII-XIX secolo, in cui la violenza carnale era considerata reato: ebbene, ciò nonostante, se la vittima della violenza fosse stata una donna considerata disonesta o di facili costumi o di un territorio colonizzato, la violenza, lo stupro, i maltrattamenti, non sarebbero stati socialmente percepiti come tali; sul versante opposto, invece, se un uomo considerato capace di provvedere economicamente alla propria famiglia e di essere un buon marito e un buon padre, si fosse macchiato delle più cruente violenze, non sarebbe stato considerato un violento.