SOCIETÀ

Non chiedere nulla dello “stato interessante”

Il tema della nascita (e l’intorno di essa, prima e dopo) è così vasto e articolato e, allo stesso tempo, così pervasivo e intimo, da trasformarsi facilmente in tabù. Anche perché, mai come oggi, si mescola a questioni meno biologiche e più propriamente sociali. Un fenomeno che avviene per il tramite della medicina, che, come spesso la scienza, rende possibile ciò che per natura (o secondo religione) non lo sarebbe. Oggi si diviene madri in molti modi (con la fecondazione assistita, grazie ad una madre surrogata, per adozione) oppure non lo si diventa mai, per scelta o per necessità. O ancora, lo si diviene in modo tradizionale, qualunque cosa questo significhi, oltre al fatto che il concepimento si è compiuto attraverso l’atto sessuale.

Anche in questa, più semplice e solo all’apparenza meno ragionata, eventualità, la donna si trova davanti a quella che la dottoressa Zorzi Meneguzzo, direttrice della rivista di psicoanalisi Gli Argonauti, definisce come illusione, parola dal duplice significato. Se da un lato, infatti, illudendoci di un’aspettativa futura, agiamo, dall’altro, quando ci illudiamo, ci auto - inganniamo. Un’illusione, del resto, di cui fanno parte i modelli comportamentali esterni, che la donna si sente chiamata a replicare in un desiderio di mimesi. 

Lo evidenzia, ad esempio, il caso clinico di Giulia (la chiameremo così), rimasta incinta in modo naturale, dopo una diagnosi di sterilità e diversi tentativi falliti di inseminazione artificiale, proprio nel momento in cui esprimeva soddisfazione per la propria quotidianità di cui con fatica si sarebbe privata. Giulia infatti, una volta nata la figlia, non si riconosce come “buona madre”, quasi esistesse un canone di maternità a lei sconosciuto e inarrivabile. Il desiderio di procreare era divenuto esso stesso l’illusione in cui bearsi, nonostante non si concretizzasse e, per questo, lei ne soffrisse. Per restare tale, paradossalmente, non si sarebbe però mai dovuto trasformare in realtà, come nel racconto Domani di Joseph Conrad.

Per molte donne, infatti, è l’imperativo sociale di realizzarsi come madre ad esser vissuto in modo sofferto e ambivalente, o addirittura negato. Come testimonia anche il documentario Stato interessante di Alessandra Bruno: quattro donne sull’orlo della quarantina che, insieme ai loro compagni di vita, raccontano, in un intreccio di confessioni e negazioni, la loro scelta di non avere figli.

Un altro angolo visuale è quello offerto dall’antropologa Mara Mabilia, docente dell’università di Padova e relatrice al recente convegno “Maternità tra illusione e realtà”. Per la studiosa infatti non esiste cultura che non abbia modellato la figura della donna attraverso delle “cornici di senso” volte al controllo del corpo femminile, perché si ottenga da lei un “risultato ottimale”. La vita di ciascuna è così scandita da un continuum di fasi susseguenti, dal menarca alla menopausa passando per la gravidanza, il parto e l’allattamento, che devono svolgersi nel migliore dei modi. E nonostante si sia portati a credere che questa sia una visione tipicamente occidentale, Mabilia, che ha trascorso tre anni in Tanzania all’interno di un progetto del Cuamm, in un villaggio nella regione di Dodoma, assicura che le locali popolazioni (i Gogo) dedicano al corpo femminile la stessa attenzione degli occidentali, e con la stessa finalità, sebbene lì le donne sembrino muoversi su ritmi più fisiologici e quindi ai nostri occhi più naturali (per esempio allattano i piccoli per 24-30 mesi, quando in Italia dopo quattro mesi il 70% delle donne ha già optato per il biberon).

Le bambine Gogo partecipano del mistero della femminilità da subito, prima come spettatrici e poi come aiutanti della madre, fino a che il menarca segna per loro l’ingresso nella vita di donne adulte, di cui sessualità e maternità, come anche la vita di coppia, sono elementi cardine. A differenza del mondo occidentale, i piani non sono distinti: i diversi ruoli non si danno uno per volta, ma simultaneamente. La possibilità biologica di procreare (“essere madre”) e la costruzione sociale di “fare la madre” sono contigue e sempre si fondono con l’essere “persona”, senza chiedere rinunce, come invece avviene da noi (una su tutte: la carriera).

Con un’ulteriore differenza: mentre in Occidente la gravidanza è esibita, fortemente “chiacchierata” e commercializzata, guai a chiedere ad una donna Gogo qualcosa sul suo stato interessante. Mabilia racconta di aver domandato a una giovane Gogo quanto le mancasse al parto, ricevendone una risposta diretta: “Queste domande non si devono fare”. Non si palesa interesse per il “bambino sperato”, che scaramanticamente potrebbe essere “aria” che rigonfia il ventre, ma lo si tutela col silenzio: dagli spiriti maligni, o dall’invidia dei propri simili, che a loro volta non chiedono perché non si sospetti di un qualche interesse perverso.

Il corpo della donna rimane un luogo privato, in cui il disvelamento della presenza di “un altro” avviene per gradi ed è annodato all’emozione che i segni fisici portano con sé (l’assenza del mestruo: “sono incinta”, i primi movimenti del feto: “sta bene”). Il bambino è nel corpo, ma fuori dalla mente, ancora nello spazio del “possibile”; da noi invece è già presente, in uno spazio di pubblico dominio: il corpo della madre è fatto oggetto di un monitoraggio continuo (dal test iniziale al momento del parto, attraverso controlli periodici), per cui i segni diventano sintomi, e nonostante le attenzioni mediche, l’insicurezza non si placa.

Valentina Berengo

 

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