CULTURA

“La pelle dell’orso”, tra silenzi e montagne

La natura si fa spazio tra i silenzi e diventa specchio dell’anima. Tra le montagne e il cielo, ci sono gli spazi privati illuminati da una luce pigra e un paesaggio disegnato dalle rughe profonde nei volti consumati degli uomini. Le Dolomiti convivono con la dimensione intima di una piccola comunità, dando vita a una storia che ripercorre i sentieri già tracciati da Jack London e William Faulkner, senza dimenticare i racconti di Rigoni Stern. Dopo aver vinto il Festival del cinema italiano di Annecy ed essere sbarcato in Canada e in Sud Corea, il 3 novembre La pelle dell’orso arriva nelle sale italiane. Il film, tratto dal libro di Matteo Righetto, è diretto da Marco Segato (entrambi padovani e laureati all’Università di Padova) e prodotto da Jolefilm. Protagonisti sono Marco Paolini e il giovane Leonardo Mason. Con loro, tra gli altri, Lucia Mascino, Maria Paiato, Mirko Artuso, Giuliana Musso, Paolo Pierobon.

Al centro la relazione difficile tra un padre e un figlio e l’abitudine a non dire e non condividere che, nel tempo, li ha trasformati in due estranei. “Cosa guardi? Bevi solo acqua tu, non sembri neanche mio figlio”, sbotta Pietro, rivolgendosi al giovane Domenico con quei modi severi e quella faccia ruvida che non è poi così diversa dalla maschera in legno che indossa durante la Gnaga, il carnevale del piccolo paese della Val di Zoldo dove il film è ambientato (e dove è stato proiettato in anteprima pochi giorni fa). Pietro ha cinquant’anni ma sembra più vecchio, è consumato dalla solitudine e dal vino e, per vivere, lavora nella cava alle dipendenze di un impresario senza scrupoli, Toni Crepaz. Intanto, nella valle tutti parlano del diavolo, el diaol, un orso che spaventa la comunità e uccide. Una sera, all’osteria, Pietro sfida Crepaz e dichiara che sarà lui ad ammazzare l’orso in cambio di denaro. Così il giorno seguente, all’alba, s’incammina e Domenico decide di seguirlo. Padre e figlio si addentrano nei boschi, senza sapere che quell’avventura li trasformerà.

Segato, com’è avvenuto l’incontro con questa storia, e quindi con il libro uscito nel 2013?

Incontrai Matteo Righetto in stazione, mi disse che il suo nuovo romanzo, La pelle dell’orso appunto, era da qualche giorno in libreria. Così, prima di salire in treno, lo comprai e nelle tre ore di viaggio da Padova a Roma lo lessi, tutto d’un fiato. Mi convinse subito, perché dentro c’erano l’orso, i sentimenti e l’avventura e sentivo che questi due personaggi in viaggio mi avrebbero permesso di sperimentare anche il genere western, che è sempre stata una delle mie grandi passioni. Chiamai Francesco Bonsembiante della Jolefilm, chiedendogli di leggerlo. Lo fece. Ventiquattr’ore dopo avevamo già deciso: era la storia giusta.

Dal libro alla sceneggiatura cos’è cambiato?

Alla sceneggiatura abbiamo lavorato io, Marco Paolini ed Enzo Monteleone. Abbiamo eliminato i riferimenti al Vajont per diverse ragioni: innanzitutto perché avrebbe comportato uno sforzo produttivo enorme e poi perché Paolini sull’argomento aveva già detto quello che sentiva di dire. Abbiamo poi lavorato sui personaggi, introducendo una figura femminile che noi sentivamo necessaria.

Alla fine che film ne è uscito? Cosa vedremo in sala?

Non volevo realizzare un film d’autore, da festival per capirci. Fin dall’inizio, l’intenzione -condivisa con lo stesso Paolini- è stata quella di raggiungere un pubblico ampio. Amo il cinema di genere e mi piaceva l’idea di fare un film classico e popolare, senza abbandonare la qualità del prodotto. È stata certamente una scelta un po’ rischiosa perché si tratta di una storia ambientata negli anni Cinquanta senza agganci di politica e attualità. Non è un film sulla crisi, sugli adolescenti, sull’immigrazione. È una storia universale che racconta la relazione tra un padre e un figlio.

Una storia di formazione, dunque, che si rivolge anche a un pubblico giovane…

Certo, vuole arrivare sia a un ragazzino di dodici anni che a un uomo di settanta. C’è da dire poi che tra i film che ho più amato in giovinezza c’è Stand by me, che racconta proprio una storia di formazione e avventura. Inoltre, non lo nascondo, le passeggiate con mio figlio in montagna hanno in qualche modo segnato il mio percorso nella realizzazione del film, arricchendo il mio immaginario.

Il paesaggio che ruolo riveste in questa storia?

Possiamo dire che è il terzo protagonista, anzi il quarto, se consideriamo l’orso. La natura determina il carattere dei personaggi. La montagna che li accoglie è aspra e silenziosa, così è la gente che abita quei luoghi, ruvida e di poche parole.

Quindi è un film di grandi silenzi…

Un film di silenzi in cui, in realtà, accadono molte cose. La natura accoglie questi silenzi, accompagnando il viaggio dei protagonisti. Abbiamo persino tolto le parole a Paolini, scelta insolita se consideriamo che il suo è un teatro di narrazione e la sua forza sta proprio nella parola. Gli abbiamo chiesto di lavorare molto sulle espressioni e abbiamo usato un trucco efficace per evidenziare ancora di più i segni del volto.

Francesca Boccaletto

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012