UNIVERSITÀ E SCUOLA

“Uno più due”, l’oscura formula per diventare insegnanti

La manovra di assunzioni nella scuola prosegue: ai 38.000 inserimenti in ruolo già compiuti si sta aggiungendo, in questi giorni, il contingente della “fase C” (sono 48.794 le proposte di contratti a tempo indeterminato inviate dal Miur: dovranno essere accettate entro il 20 novembre). Le due tappe successive prevedono la stabilizzazione in tre anni di 30.000 precari provenienti dalle graduatorie a esaurimento, ma soprattutto il concorso per 63.700 posti (riservato agli abilitati) il cui bando uscirà tra poche settimane. All’inizio del 2016, infine, dovrebbe partire il nuovo ciclo dei Tfa, i tirocini annuali di formazione cui si accede con un test d’ingresso, che permettono ai laureati di conseguire l’abilitazione. Dovrebbero essere, nelle intenzioni del governo, gli ultimi provvedimenti legati al vecchio regime di reclutamento nella scuola secondaria: la riforma in via di attuazione con la legge 107/2015 prevede, sul fronte dell’accesso alla professione, cambiamenti radicali. È uno dei grandi temi la cui realizzazione è stata delegata al governo, perché la legge si limita a tracciarne le linee essenziali, demandando all’esecutivo i provvedimenti di dettaglio.

Un’analisi molto critica del modo in cui “La buona scuola” affronta il nodo della futura formazione dei docenti e del loro ingresso in ruolo viene dalla Fondazione Giovanni Agnelli, che al problema ha dedicato un forum e un documento di sintesi. Il sistema delineato dalla riforma del governo è articolato, per la scuola secondaria, in tre stadi successivi: formazione universitaria, concorso, contratto triennale (con specializzazione più tirocinio). Per diventare insegnanti si dovrà ottenere una laurea di secondo livello (magistrale) “coerente con la classe disciplinare di concorso” (il sottosegretario Faraone ha appena annunciato che a breve le classi verranno riformate, con una forte riduzione del numero complessivo). Dei 120 crediti necessari per conseguire il diploma di laurea magistrale, almeno 24 dovranno riguardare “discipline antropo-psico-pedagogiche” e tecnologie e metodologie didattiche: un numero troppo esiguo, secondo la Fondazione Agnelli. Il titolo sarà condizione per partecipare ai concorsi: chi vincerà verrà assunto (da un singolo istituto o da una rete di scuole collegate tra loro) con un contratto a termine triennale di studio e tirocinio. Il primo anno i futuri insegnanti seguiranno negli atenei un corso di formazione specialistica (focalizzato sul proprio settore disciplinare, sulle materie psicopedagogiche e la normativa scolastica), con il conseguimento del diploma per l’insegnamento secondario. I successivi due anni saranno invece di tirocinio e “graduale assunzione della funzione docente”. Terminato il biennio di tirocinio, una volta ottenuta la valutazione positiva, si verrà assunti a tempo indeterminato.

La critica degli autori dello studio si basa, anzitutto, sulla differente impostazione del sistema individuato da “La buona scuola” rispetto ai modelli più diffusi in Europa. Mentre all’estero, argomenta la Fondazione, formazione teorica e tirocinio sono paralleli e strettamente correlati (i tirocini iniziano già all’università), lo schema italiano prevede la totale assenza di esperienze sul campo sia nel periodo universitario che durante il primo dei tre anni post-concorso. Forti riserve vengono poi espresse sulla vaghezza della consequenzialità tra abilitazione e assunzione (tappe, secondo la Fondazione, che devono rimanere ben separate): nella riforma italiana, il termine “abilitazione” scompare, sostituito dalle due fasi del concorso (che si supera senza aver ancora mai insegnato un solo giorno) e della successiva formazione triennale.

Critiche vengono dalla Fondazione anche sul meccanismo di valutazione che consente, una volta terminato il tirocinio, di essere assunti a tempo indeterminato: non viene spiegato a quale organo spetterà la decisione. Qualora toccasse al comitato di valutazione interno a ogni istituto, osserva il documento, si legittimerà la più completa discrezionalità delle singole scuole, i cui collegi decideranno secondo criteri soggettivi e non comparabili tra loro. Secondo la Fondazione, poi, il sistema delineato ha una durata eccessiva: otto anni (cinque di università e tre di formazione teorico-pratica) durante i quali la scelta definitiva della carriera di docente viene compiuta solo una volta ottenuta la laurea magistrale (cosicché, secondo lo studio, l’insegnamento rischia di diventare un’opzione residuale: la Fondazione propone un percorso di non oltre sei anni totali). Le conclusioni tratte dallo studio sono pessimistiche. L’impianto della legge appare troppo rigido e definito per potersi attendere un’applicazione delle norme che apra a innovazioni sostanziali rispetto alle linee tracciate nella legge 107; si può solo auspicare, conclude il documento, qualche correzione nelle direzioni indicate: più crediti universitari obbligatori nelle discipline psicopedagogiche; inizio del tirocinio già durante il corso di laurea; abbreviazione del tirocinio post lauream. Ma quale sarebbe, per la Fondazione Agnelli, il metodo migliore di assunzione dei docenti? Il modello anglosassone, con la chiamata diretta degli insegnanti da parte dei singoli dirigenti. Uno schema però, riconoscono gli stessi autori dello studio, basato su un’impostazione privatistica e flessibile del rapporto istituti-docenti che appare difficilmente compatibile con l’attuale scuola italiana.

Martino Periti

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