SCIENZA E RICERCA

Il coronavirus e l’abbattimento dei visoni

La vicenda che in queste ultime settimane ha coinvolto i 17 milioni di visoni abbattuti negli allevamenti intensivi di animali da pelliccia in Danimarca ci allarma ulteriormente intorno ai pericoli della pandemia, ma soprattutto ripropone con urgenza una questione di fondo, quella del nostro impiego degli animali, e non solo quelli destinati ad un consumo voluttuario come le pellicce. 

Si è parlato a lungo del ruolo giocato dagli animali selvatici, come il pangolino e i pipistrelli, nel favorire la diffusione del COVID-19 tra la popolazione umana, per via soprattutto del consumo alimentare che avviene nei wetmarket nei Paesi orientali. Si è parlato anche degli animali domestici, non solo quelli da compagnia, ma anche quelli da allevamento, costretti in spazi ristretti ad altissima densità numerica e per questo facile fonte di trasmissione di virus e zoonosi, malattie trasmissibili agli umani. 

Ed ora ci troviamo di fronte ad una emergenza nell’emergenza, per via di animali selvatici allevati però come fossero animali domestici, in spazi oltremodo ristretti e con densità altissime, all’interno di allevamenti dedicati ad un consumo umano oramai obsoleto e sempre meno diffuso. Almeno così sembrava, perché il numero di animali coinvolti fa pensare che si tratti di un settore produttivo non del tutto ancora scomparso. Anche in altri Paesi europei, compresa l’Italia, ci sono allevamenti intensivi di questi animali, che in natura vivrebbero in spazi ampi e conducendo una vita solitaria lontano, perlopiù, dall’uomo. In questi allevamenti, invece, il contatto tra gli animali e il personale che vi lavora è molto stretto, al punto che la trasmissione di malattie all’uomo (e viceversa) è sempre in agguato. E, così, tristemente, è stato per il COVID-19, in una versione però mutata, grazie al passaggio tramite i visoni, che hanno mostrato di essere altamente suscettibili al coronavirus.

La mutazione avvenuta nei visoni è stata poi riscontrata tra gli addetti ai lavori che sono stati infettati e questo ha determinato la situazione di emergenza che ha portato la Danimarca, ma non solo, a decidere l’abbattimento cautelativo di tutti gli animali di questa specie presenti negli allevamenti da pelliccia del Paese. 

Si è discusso e si continua a discutere se l’abbattimento fosse davvero necessario e se il pericolo fosse scientificamente fondato, dato che è nella natura dei virus mutare, e questo non significa immediatamente che vi sia il rischio di una nuova pandemia o che il vaccino che è in preparazione venga minacciato nella sua efficacia. Il vero pericolo tuttavia, come è stato sottolineato, era il numero di animali coinvolti nell’infezione, più di tre volte superiore alla popolazione dell’intera Danimarca, un numero che ha determinato il verificarsi di una catena di infezioni fuori controllo e che ha portato alla decisione di effettuare l’abbattimento di massa preventivo. 

Nel frattempo, anche altri Paesi stanno seguendo l’esempio della Danimarca e si è discusso anche del danno arrecato agli allevatori e al mercato delle pellicce. Ancora una volta, tuttavia, si è discusso poco delle vere responsabilità coinvolte. La responsabilità ultima, infatti, è nostra, che consumiamo senza consapevolezza, senza domandarci da dove vengono i prodotti di cui ci cibiamo, di cui ci vestiamo, e così via. Come ha sottolineato D. Goleman, che ha dedicato tutto il suo lavoro di psicologo allo studio dei diversi tipi di intelligenza che ci caratterizzano, tra cui l’intelligenza ecologica, conduciamo le nostre vite senza pensare alle conseguenze per il Pianeta. Ignoriamo i legami che esistono tra le nostre decisioni quotidiane, come l’acquisto di un determinato prodotto, e l’impatto che tali decisioni hanno sul Pianeta.

Oggi, in un tempo in cui le nostre conoscenze sia sulle esigenze degli animali che impieghiamo nelle nostre attività di consumo sia sui rischi della promiscuità forzata negli allevamenti intensivi sono sempre più approfondite, pare quasi anacronistico scoprire che la maggior parte delle persone non è neppure a conoscenza dell’esistenza degli allevamenti intensivi di visoni da pelliccia. Come quando le nuove generazioni di bambini credono che il latte nasca in frigorifero o che gli hamburger provengano dal banco frigo dei supermercati, senza alcuna consapevolezza di ciò che c’è dietro. 

Tra tutte le attività di impiego e di consumo in cui coinvolgiamo gli animali, quella per il consumo di pellicce tramite l’allevamento intensivo è la prima da ripensare. A fronte della produzione di un bene voluttuario, costringiamo animali selvatici come i visoni ad una vita che non rispetta pressoché in alcun modo le loro esigenze di benessere – e nessuno sembra preoccuparsene – e ci poniamo in situazioni di alto rischio zoonotico, a contatto con malattie altamente trasmissibili all’uomo, come il caso del coronavirus.

Le modalità con cui i 17 milioni di visoni sono stati soppressi si aggiunge a tutto questo come ulteriore tema di discussione, allo scopo di domandarci se il soffocamento per inalazione di anidride carbonica, come previsto dalla normativa nelle situazioni di emergenza (e non solo), sia da considerarsi una morte istantanea e indolore. 

Le immagini delle ruspe che hanno portato via i corpi inermi di tutti quegli animali e li hanno depositati nelle fosse comuni create per l’occasione ci riporta poi, nuovamente, agli episodi che hanno coinvolto nei mesi scorsi gli animali destinati al consumo alimentare, come i maiali o i bovini, che sono stati abbattuti in massa per soffocamento nei capannoni dove venivano allevati, in diversi Paesi del Mondo, e poi seppelliti in fosse comuni perché gli impianti di macellazione erano fermi, a causa del coronavirus e dei contagi tra il personale addetto.

Forse gli allevamenti di visoni chiuderanno e la produzione di pellicce verrà progressivamente abbandonata – e questo sarà stato uno dei (pochi?) effetti positivi del coronavirus –, ma rimane la questione di fondo che ci accompagna sin dall’inizio della pandemia: se non rivediamo con urgenza i nostri stili di vita e i nostri rapporti con le diverse categorie di animali che consumiamo, da quelli domestici da allevamento, o da compagnia, a quelli selvatici, saremo presto travolti dallo stesso sistema che abbiamo contribuito a creare.      

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BARBARA DE MORI

Laureata a Padova in filosofia morale nel 1996, e con un dottorato di ricerca in Etica, Barbara de Mori lavora presso il dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione e insegna bioetica animale ed etica del benessere animale nei corsi di laurea in Medicina Veterinaria, Animal Care e Biotecnologie dell’università di Padova. Si occupa di questioni etiche nell’ambito del benessere e della gestione degli animali nella conservazione, nella sperimentazione, nell’allevamento intensivo, nella pet therapy. È responsabile di accordi di cooperazione internazionale e collabora con Università statunitensi ed europee, con Enti e Università in Sudafrica e in Cina. E’ Direttore dell’Ethics Laboratory for Veterinary Medicine, Conservation and Animal Welfare dell’Università di Padova e della rivista Internazionale Journal of Applied Animal Ethics Research. È membro di Comitati etici per la sperimentazione e per le attività assistite con gli animali e dirige i Corsi Post Lauream in Conservation e Animal Welfare Ethics. È responsabile della collana editoriale Etica e Bioscienza per l’editore Mimesis e membro di comitati scientifici di riviste e di organizzazioni scientifiche.

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