SOCIETÀ

12 miliardi di euro: ecco lo spreco alimentare in Italia

Benché si senta sempre più spesso parlare di calo dei consumi e rinunce alimentari anche nei paesi ricchi, ai giorni nostri non c'è affatto carenza, ma abbondanza di cibo e non ci accorgiamo di quanto ne viene sprecato. Ogni individuo in Italia ha a disposizione 3.700 kilocalorie di media, mentre a una persona ne bastano normalmente dalle 1.800 alle 2.200. La FAO stima che un terzo del cibo prodotto venga sprecato attraverso l’intera catena di approvvigionamento, a partire dal prodotto agricolo fino ad arrivare al consumo domestico. Come e dove si perde questo cibo?

Partendo dalla definizione di spreco alimentare, si capisce fin da subito che non c’è una base condivisa e che, quindi, fare delle comparazioni di dati, fra le varie parti del mondo, è difficile.

In questa occasione un bene si intende sprecato, quando perde le sue caratteristiche di merce, ma non di alimento: in altre parole, non può più essere venduto, ma rimane perfettamente commestibile. I motivi per cui un bene può perdere tali caratteristiche sono vari, ma vengono ricondotti al fatto che un bene non è più vendibile quando non gli si piò attribuire un prezzo e non può essere scambiato con una contropartita monetaria all’interno della filiera.

Secondo i dati presentati da Luca Falasconi, docente di politica agraria e sviluppo rurale nonché cofondatore di Last minute market con Andrea Segrè, lo spreco in Italia si può quantificare, sia quantitativamente che in valore, seguendo i passaggi del cibo dal campo alla fabbrica alla distribuzione e al supermercato.

L'agricoltura spreca, soprattutto per la mancata rispondenza agli standard dei prodotto (pezzature tropo piccole, troppo grandi, difetti superficiali che non riguardano sapore, salubrità e valori nutritivi) 1.547.261 di tonnellate di prodotti per 874.865.964 euro all'anno.

L'industria di trasformazione spreca 1.786.137 tonnellate per 1.110.917.876 euro di valore; la distribuzione, a sua volta, mostra una miglior gestione delle quantità, che hanno già passato diverse selezioni prima dell'acquisto – si perdono 379.087 tonnellate per un valore, però, di 1.542.790.205 euro: i costi di gestione di tutti i passaggi precedenti ormai pesano sensibilmente sul valore della merce. Per quanto la quantità sprecata sia qui di circa un quarto e un quinto rispetto ad agricoltura e industria, il valore monetario dello spreco è nettamente maggiore. 

Ma dove lo spreco è davvero imponente, purtroppo, è al consumo, nelle case: non solo per il valore, accresciuto dai  prezzi al consumo ma pari, con 8.700.000.000 di euro a ben oltre due volte la somma tutto lo spreco precedente, ma anche per le quantità totali: 4.000.000 di tonnellate che dai nostri piatti e frigoriferi finisce nel bidone, tanto quanto tutto lo spreco a monte in volume.

La maggior parte dello spreco alimentare avviene dunque in ambito famigliare. Le cause sono molteplici. Fra tutte, la mancanza di conoscenza di quello che mangiamo, che non permette di dare il giusto valore al cibo. 

La mancanza di consapevolezza è un’altra causa. Ad esempio, non tutti sanno la differenza fra la data di scadenza e la preferenza di consumo. La prima è stabilita dalla legge e vale solo per alcune categorie di prodotto, superata la quale, il prodotto potrebbe andare incontro a deterioramento e non è più né vendibile, né consumabile. La preferenza di consumo, invece, è stabilita dall’impresa di produzione e indica che, dopo tale data, le caratteristiche organolettiche, che il prodotto aveva al momento di confezionamento, possono diminuire, ma non significa che il prodotto non sia più mangiabile. Uno yoghurt potrebbe avere una minore quantità di lattobacilli, ma essere ugualmente buono e consumabile.

Altra considerazione importante da fare è che chi vende e chi produce non ha interesse a insegnare a non sprecare o predisporre confezioni che agevolino la conservazione della parte non immediatamente consumata. Maggiore la quantità acquistata, maggiore l’introito per tali imprese. Ben 8,7 miliardi di euro. 

E poi c’è quella che Falasconi chiama la “sindrome della brava madre”, con cui intende dire che spesso, in ambito familiare, si compra circa un 30% del cibo in più, per timore di non averne a sufficienza o semplicemente per fare delle scorte, che poi nella gran parte dei casi non verranno usate. 

Una famiglia in media destina il 18/20% del proprio reddito per l’acquisto di cibo; una percentuale molto bassa, poiché il cibo rispetto ad altri beni e servizi costa relativamente poco, e che cresce sensibilmente solo in presenza di forte disagio socio-economico. Tuttavia in tempi di crisi bisognerebbe dare ancora più valore a tale spesa e porre attenzione allo sperpero.

Dall’indagine è emerso che nel sud Italia si spreca a causa di un eccesso di cibo cucinato. Nel nord Italia si spreca, perché si mangia meno spesso a casa e non si consumano gli avanzi, o perché le confezioni sono troppo grandi o non vengono usate, vista l’abitudine di  acquistare in eccesso. Si butta in maggioranza frutta, verdura, seguite da formaggi, pane, latte e yoghurt. Meno del 10 %, però, dichiara di sprecare del cibo cotto.

Dai dati si deduce che la distribuzione è il settore che ha il dato più basso per quanto riguarda lo spreco, ma in realtà contribuisce a far sprecare cibo agli agricoltori. Questo perché, prodotti agricoli che non siano standardizzati o che non rispettino determinate caratteristiche, non vengono accettati e non vengono commercializzati. Di conseguenza, gli agricoltori non hanno interesse a raccogliere quei prodotti, che restano a marcire nei campi. Un esempio tipico viene dalle mele: non devono essere troppo grosse o troppo piccole o macchiate dalla tempesta, altrimenti non sono vendibili, senza che per questo venga inficiata la loro bontà.

Quando si produce un bene ci sono delle esternalità negative, come l’emissione di anidride carbonica e gas serra; si utilizzano macchine per i trasporti, le lavorazioni, si fa ricorso a prodotti per trattamenti, si costruiscono e mantengono strutture, si consumano delle risorse, come l’acqua. Gettare un bene, significa aver contribuito all’inquinamento, perché la produzione ha consumato delle risorse per produrre un rifiuto. 

Proprio per contrastare lo spreco alimentare da una ricerca pluriennale dell'università di Bologna, dipartimento di Agraria, è nato Last minute market, il progetto cui lo stesso Falasconi lavora e che ha contribuito a fondare. Last Minute Market è una società spin-off dell'ateneo di Bologna che nacque nel 1998 come attività di ricerca. Dal 2003 è tramutata in una società a responsabilità limitata e ora opera su tutto il territorio nazionale. 

La strategia scelta per aggredire le dinamiche dello spreco è quella della prevenzione: si cerca di mettere in comunicazione le imprese, che devono gestire gli eccessi della produzione e le difficoltà del mercato ad assorbire parte del prodotto, tanto più nel pieno di una crisi che sta nettamente restringendo gli acquisti, con gli enti e associazioni, che si occupano di persone in condizioni di disagio. In questo modo del cibo, consumabile e di ottima qualità, passa in modo gratuito dalle imprese a enti associazioni, che lo utilizzeranno per sfamare i loro assistiti. 

Il compito di Last minute market è trovare gli interlocutori e creare le condizioni tali, affinché il passaggio avvenga in modo corretto dal punto di vista igienico - sanitario, fiscale, logistico e con la garanzia che quel cibo non torni sul mercato per vie traverse. 

Questo tipo di azione è diffusa, ma l’incidenza che ha sullo spreco è ancora residuale. Per questo il consumatore può rendersi conto di quanto sia importante prestare maggiore attenzione a quello che compra e all’uso che ne fa.

Eleonora De Franceschi

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