UNIVERSITÀ E SCUOLA
Che lingua parla papa Francesco?
Città del Vaticano, 11 febbraio 2013, ore 11.46: “…ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum”. Ha raccontato Giovanna Chirri, la vaticanista dell’Ansa che dalla sala stampa assisteva insieme ad altri giornalisti alla diretta a circuito chiuso del concistoro per i martiri di Otranto, che sono state le parole ingravescente aetate, “età avanzata”, a metterla sull’avviso. E che, incredula e con le gambe tremanti, ha continuato ad ascoltare dicendosi “hai capito male”, fino a quando non ha sentito Benedetto XVI pronunciare addirittura la data dalla quale ci sarebbe stata la sede vacante (“ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet”). Allora ha scritto un tweet, e la notizia delle dimissioni del papa ha fatto il giro del mondo. Un cronista plurilingue ma ignaro del latino non avrebbe capito nulla.
La Chirri ha ricevuto molti complimenti anche oltreoceano, e la circostanza ha suscitato qualche riflessione sul valore spesso sottovalutato della formazione umanistica oggi. Perché, a ben vedere, non è del latino in sé che si sta parlando, ma anche del posto della cultura umanistica nell’assetto dei saperi contemporaneo, e del destino, specialmente nelle scelte sugli impianti formativi, delle lingue che a quella cultura (seppur non esclusivamente a quella) sono storicamente legate: e dunque anche dell’italiano.
Già, perché in pochi hanno notato che papa Bergoglio ha usato solo la lingua di Dante nel saluto rivolto la sera dell’elezione dalla loggia di San Pietro. Si dirà che lo ha fatto in quanto “vescovo di Roma”, definizione che ha voluto sottolineare nella stessa occasione. E che prima di lui lo stesso avevano fatto anche Woityla e Ratzinger, in omaggio alla folla teoricamente “indigena” della piazza. Ma qualche giorno dopo, nel momento culminante di tutto il calendario cristiano, la celebrazione della Pasqua, in occasione della benedizione urbi et orbi, papa Francesco ha rinunciato all’augurio plurilingue per limitarsi all’italiano; e in questa lingua ha continuato a esprimersi in tutte le successive occasioni pubbliche; cosicché l’insieme di queste circostanze suggerisce l’idea che l’italiano possa accrescere il proprio ruolo come sorta di ‘lingua franca’, seppur non ufficiale, della Chiesa. Perché una cosa è certa: sia il giorno dell’elezione che la domenica di Pasqua, i cristiani di tutto il mondo che hanno ascoltato le parole del papa, lo hanno sentito parlare solo in italiano. Il che a noi, provinciali per punto di vista, sembra naturale: ma lo è un po’ meno a Manila o a Città del Messico.
Chissà cosa ne pensano i cantori dell’inglese che allignano ovunque, anche in quelli che teoricamente dovrebbero essere i presìdi della cultura italiana, come le università. Per esempio i responsabili della classificazione delle riviste dell’Anvur, che l’anno scorso avevano stabilito che le riviste in lingua straniera valessero di più di quelle italiane, indipendentemente dal campo disciplinare: per cui un articolo pubblicato sul Bollettino di italianistica della Sapienza contava automaticamente meno, in termini concorsuali, di uno scritto in una delle riviste in inglese dei dipartimenti di italiano o modern languages in giro per il mondo. C’è voluta la rivolta degli italianisti per farli tornare sui propri passi, ma il segnale è chiaro, in linea con il provvedimento che obbliga tutti i corsi di laurea a inserire una percentuale di corsi in inglese nella propria offerta didattica, con la finalità di attrarre studenti stranieri.
Ora, che questo obblighi una parte del corpo docente ad affinare le proprie academic English skills (per le quali a Padova il meritorio Centro linguistico di ateneo organizza peraltro appositi corsi) va anche bene: ma resta discutibile l’idea che l’università italiana, per rendersi appetibile all’internazionalizzazione in entrata, debba rinunciare alla propria lingua, come se essa fosse indifferente ai contenuti veicolati, un puro mezzo. Tanto più che nel mondo l'Italia esercita storicamente un’attrattiva in campi nei quali la sua fama è direttamente legata alla sua cultura: sicché in prospettiva si potrebbe verificare il paradosso di corsi per esempio su Michelangelo o Raffaello rivolti a studenti stranieri amanti dell’arte italiana e venuti a studiarla in Italia, ma tenuti in inglese.
Come prevedibile, d’altronde, il provvedimento ha già aperto il vaso di Pandora dei fondamentalismi: e il Politecnico di Milano ha annunciato che dal prossimo anno tutti i corsi saranno tenuti solo in inglese, per stare al passo coi tempi. Il paradosso è che mentre l’università italiana apre all’inglese, l’italiano si rafforza proprio nel Paese la cui forza economica ha fatto dell’inglese la lingua franca dei nostri anni, e cioè gli Stati Uniti: lo dimostrano anche i dati che segnalano la costante crescita della diffusione dell’italiano nelle high schools e nelle università americane. I dati, frutto di una ricerca ancora in corso condotta dal J.D. Calandra Institute della Cuny e dall’Università per stranieri di Perugia sotto la direzione del prof. Roberto Dolci, sono in linea con quelli consultabili sul sito usspeaksitalian. Secondo la Modern Languages Association, il numero di studenti di italiano nelle università americane è cresciuto del 60% dal 1998 al 2009, passando da 49.000 a quasi 81.000, e facendo dell’italiano la quarta lingua straniera studiata negli Usa, dopo spagnolo, francese e tedesco. Analogo il trend nelle high schools, dove secondo l’American council on the teaching of foreign languages, il numero degli alunni che studiano l’italiano è salito in 5 anni (2004-2008) da 65.000 a 78.000 e, a fronte di una diminuzione dell’offerta complessiva di programmi in lingua straniera, la lingua di Dante è un’opzione presente nel 4% di scuole (2008) contro il 3% del 1997.
I numeri assoluti non sono certo altissimi, anche se si avvicinano ormai al tedesco, ma il “mercato potenziale” è invece enorme, e in aumento, se si considera che gli americani a dichiarare di avere un antenato italiano sono stati nel 2009 quasi 18 milioni, contro i 15 e mezzo del 2000, e che l’Italia è ormai la seconda meta preferita dagli studenti americani (dopo la Gran Bretagna), a dimostrazione del fatto che l’origine della famiglia di appartenenza non esaurisce le ragioni di una scelta che per una fetta importante degli studenti è invece legata al fascino che la nostra cultura esercita anche nel cuore dell’impero.
Il punto non è, ovviamente, quello di proporre improbabili paragoni con l’inglese, ma evitare di dismettere, per eccesso di zelo, un capitale culturale e anche economico gigantesco, sul quale qualunque classe dirigente di un paese diverso dall’Italia produrrebbe un investimento strategico e massiccio, anziché gareggiare nella sua liquidazione. Nipoti di emigrati, amanti dell’opera, ammiratori dell’arte e della letteratura italiana, sarebbero il target ideale per promuovere, specie in tempi di crisi, quel made in Italy che abbiamo ereditato, spesso senza meriti, dalla storia: se così fosse, le sorti dell’italiano (e, mutatis mutandis, quelle del latino) non sarebbero affatto segnate. A patto di crederci, senza impropri rigurgiti nazionalisti, ma senza provincialissimi eccessi di esterofilia.
Attilio Motta