SOCIETÀ

Compiti a casa: quali e quanti?

I genitori a volte si lamentano che sono troppi. Poco più di un mese fa il ministro Carrozza suggeriva di assegnarne meno. Prima di lei, nel 2008, l’allora ministro Giuseppe Fioroni. Mentre altri non mancano di sottolineare gli scarsi risultati degli studenti italiani nei test internazionali Ocse-Pisa e dunque la necessità di essere fermi sul carico di lavoro. Sulla questione dei compiti a casa dei ragazzi si discute ormai da tempo.

“Il punto non è se assegnare o meno i compiti – sottolinea Daniela Lucangeli, professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’università di Padova – ma quali e quanti assegnarne. I compiti non possono infatti sostituire l’apprendimento del tempo scuola, né tanto meno ciò può essere delegato solo alle lezioni assegnate a casa. Che sono un supporto all’apprendimento, costituiscono una fase di consolidamento e stabilizzazione di quanto si inizia a imparare in classe”. Secondo le recenti ricerche in ambito cognitivo perché l’apprendimento sia davvero significativo la fase dell’insegnamento deve garantire l’intero “flusso dell’intelligere”: alla fase in cui si imparano le informazioni nuove deve infatti seguire la rielaborazione attiva dell’allievo. E la seconda fase è la più importante dell’intero processo cognitivo perché l’alunno interiorizza e rende proprie le conoscenze trasmesse dall’insegnante e dall’ambiente circostante attraverso una elaborazione personale”. In altri termini, l’allievo diventa capace “di pensare”, arricchito dalle informazioni apprese.

Il problema della scuola italiana, basato in larga parte su lezioni frontali, è di esercitare in prevalenza la prima fase dell’apprendimento, cioè l’assimilazione, e di delegare invece il momento più importante di elaborazione ai compiti a casa. Questo rischia di generare un apprendimento passivo e per lo più a breve termine, finalizzato soprattutto alla prestazione. Cosa che invece non accade se il docente accompagna lo studente nella fase della rielaborazione, identificando eventuali errori, anche di ragionamento, e adottando strategie efficaci. “Compito del docente deve essere quello di affrontare ogni obiettivo discutendone con i ragazzi, facendoli ragionare, offrendo strategie per apprendere sempre meglio. I metodi sono molti: dalla discussione di gruppo al cooperative learning, fino al tutorato tra pari. I compiti a casa vengono dopo, solo per consolidare quanto già appreso in classe".

E accanto alla qualità dei compiti da dare, è fondamentale calibrarne la quantità. “Un eccesso di carico – spiega Daniela Lucangeli – affatica e rallenta i processi cognitivi, oltre che diminuire la motivazione”. Nei primi due anni delle elementari il carico di lavoro pomeridiano non dovrebbe superare i 30-45 minuti, che possono arrivare all’ora e mezza negli ultimi tre anni. Alle scuole medie e superiori, invece, non dovrebbero eccedere le due-tre ore, perché lo studente dovrebbe avere anche “tempi di vita sociale”.

C’è poi chi è di posizioni più radicali come Maurizio Parodi, dirigente scolastico assegnato al Coordinamento genitori democratici e autore del libro Basta compiti! Non è così che si impara (Sonda edizioni, 2012). “I docenti – argomenta – assegnano il lavoro pomeridiano come se fosse il solo, senza confrontarsi con i colleghi e costringendo spesso i ragazzi a interi pomeriggi sui libri”. Come del resto sottolineava già nel 1965 il ministro Luigi Gui che, pur ritenendo ineliminabile l’attività di studio pomeridiano, esortava i docenti a coordinare l’attività didattica per una “proficua organizzazione dello studio extrascolastico”. Senza contare che i compiti possono essere discriminanti, perché indiscriminati. Secondo Parodi, infatti, ci sono ragazzi che affrontano i compiti senza problemi o hanno genitori culturalmente in grado di aiutarli, mentre altri possono avere qualche difficoltà e non trovare nella famiglia il sostegno necessario. E questo può generare frustrazione e portare al fallimento proprio quegli studenti che invece avrebbero più bisogno di essere seguiti dalla scuola. “L’insegnante di mio figlio, che frequenta la prima media, non assegna compiti nel pomeriggio – conclude – Ma si tratta di esperienze di nicchia in Italia”.

Lo stile cognitivo dei ragazzi è certamente cambiato: i tempi di concentrazione sono minori, gli stimoli che provengono dai media e dalle nuove tecnologie maggiori, la comunicazione più veloce. “Per questo non si può pensare di insegnare oggi come un tempo”. Lo sottolinea Alessandra Giraldo, referente per la provincia di Treviso del Miur e Unicef Italia per il progetto Verso una scuola amica, e lo ribadisce Cecilia Contarin, insegnante di lettere al liceo scientifico “Carlo Cattaneo” di Monselice. “Gli studenti devono essere i protagonisti del momento educativo. In classe devono essere attivi, coinvolti e il loro cervello sempre in fermento. Per questo ogni metodologia didattica che permetta di raggiungere l’obiettivo è valida”. Ma ciò non prescinde dai compiti che i ragazzi devono svolgere a casa, come momento di riflessione personale su quanto trasmesso dall’insegnante e in continuità con il lavoro svolto a scuola. Certo, se a farli sono i genitori, allora servono a poco. Sulla necessità e utilità del lavoro pomeridiano la docente è ferma, come pure molti altri insegnanti tra cui Federica Vettorato che da anni lavora nella scuola media dell’istituto comprensivo “Fogazzaro” di Noventa Vicentina. Si può ragionare sulla quantità, sottolinea quest’ultima, che implica anche una migliore qualità del lavoro pomeridiano, ma non si può assolutamente pensare di eliminare il tempo che, per conto proprio, l’alunno dedica alla riflessione e alla verifica dei contenuti trasmessi a scuola. Anche perché in aula il tempo non sempre è sufficiente. “Bisogna stare ‘in trincea’ – dice la docente – per capire cosa significa insegnare oggi. Con classi molto numerose, metà delle quali composte da studenti stranieri da alfabetizzare e, a volte, da altri con problemi di dislessia che necessitano di programmi mirati”.

Emerge che le considerazioni di ordine metodologico, compresa l’opportunità di assegnare i compiti a casa agli studenti, vanno inevitabilmente calate nella realtà scolastica italiana, fatta di tagli alle risorse, di riduzione dell’orario scolastico, di classi (soprattutto nella scuola dell’obbligo) in cui gli studenti hanno bisogni, livelli e tempi di apprendimento molto differenti.

Monica Panetto

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