SCIENZA E RICERCA

Dormire per ricordare

Dormici su, la notte porta consiglio, esortavano le nonne al tempo – così lontano, parrebbe – in cui i proverbi rappresentavano ancora un patrimonio vivo di sapienza popolare. E le nonne avevano ragione: lo dice l'esperienza e lo dicono anche, sempre più numerose, le ricerche scientifiche. Il riposo notturno rappresenta per noi umani una potente ricarica, che non solo ci aiuta a recuperare le forze dopo le fatiche del giorno precedente, ma pulisce e rimette in ordine i nostri “file” interni, in modo che la mattina dopo, a mente sgombra e lucida (come, non a caso, si usa dire), possiamo affrontare problemi che solo poche ore prima sembravano insolubili.

Una serie di studi recentissimi, pubblicati nei giorni scorsi su Nature Neuroscience e rimbalzati poi sul New York Times, gettano ora una nuova luce su questi meccanismi di rigenerazione, e in particolare sul rapporto fra sonno e memoria. Punto di avvio della ricerca è la constatazione – tanto vera, quanto amara per chi va avanti con l'età – che, invecchiando, la nostra capacità di ricordare si trasforma e si riduce. Già in precedenza era stato dimostrato che la corteccia prefrontale, l'area del cervello che si trova proprio dietro la fronte e che contribuisce a garantire una buona qualità del sonno, e più precisamente di quella fase che va sotto il nome di “sonno a onde lente” (o sonno profondo), tende a contrarsi con il passare del tempo.

L'esperimento condotto dall'équipe del neuroscienziato Bryce A. Mander presso l'università di Berkeley conferma come questa area svolga un ruolo determinante nella consolidazione dei nuovi ricordi. Due gruppi di persone, da un lato giovani di vent'anni o poco più, dall'altro pensionati di diverse età (la cui corteccia prefrontale risultava quindi ridotta, in conseguenza del naturale procedimento di atrofia), hanno dovuto apprendere una lunga lista di parole nuove, alcune delle quali volutamente insensate, poco prima di andare a dormire. Subito dopo l'addestramento è stato condotto un test di valutazione, che ha visto i giovani superare gli anziani in misura quantificabile intorno al 25 per cento. Poi tutti sono andati a letto e mentre i soggetti dell'esperimento dormivano, le differenze si sono fatte più rilevanti: l'encefalogramma ha infatti mostrato che il gruppo dei seniores aveva solo un quarto della quantità di sonno a onde lente rispetto agli juniores. E la mattina seguente, in un nuovo test sulle parole imparate la sera prima, il distacco fra i ragazzi e i pensionati si è accentuato fino a raggiungere il 55 per cento. Anche gli anziani che nella prima prova avevano dato buoni risultati sono peggiorati notevolmente, a dimostrazione – sostiene Mandel – che in gioco non c'è la capacità della memoria, ma la qualità del sonno, visto che proprio nella fase a onde lente il cervello sposterebbe i ricordi da una “dispensa temporanea” a un “magazzino a lungo termine”.

Un risultato confermato da un altro esperimento nel corso del quale un gruppo di individui anziani, sottoposti nel sonno a una lieve stimolazione elettrica sull'area prefrontale, che simulava le onde lente, mostrava poi un certo miglioramento della capacità di ricordare. In realtà, nota sul New York Times un altro neuroscienziato, Ken Paller, docente presso la Northwestern University, ci sono (aggiungiamo noi: per fortuna) altri modi, a partire dall'esercizio fisico, per garantire un sonno di qualità, anche se ci sono ormai pochi dubbi sulla relazione fra l'atrofia della corteccia prefrontale e il calo della memoria.

Quello che è certo, è che la notte porta consiglio, e non solo.

Maria Teresa Carbone

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012