SCIENZA E RICERCA

Fame? Ecco chi ti fa dire basta

“Maccarone m’hai provocato e io ti distruggo. Io me te magno”. La scena è celebre, con un Alberto Sordi poco più che trentenne che, in Un americano a Roma, si abbuffa davanti a un piatto di pasta. Se la pellicola è datata, il rituale ancora oggi non è così inconsueto. Fino a quando, complice un inevitabile senso di sazietà, al cibo si dice basta. Proprio recentemente uno studio tutto italiano, pubblicato nella rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), spiega il meccanismo con cui il cervello percepisce la sazietà. Principali protagonisti una molecola secreta nell’intestino, l’oleoiletanolamide (Oea), e un neurotrasmettitore cerebrale, l’istamina. 

Quando si inizia a mangiare l’intestino produce la molecola Oea, un lipide che induce il senso di sazietà e riduce dunque la quantità di cibo che si ingerisce. “La sazietà – spiega Roberto Coccurello del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) che ha partecipato alla ricerca – è un processo fisiologico che insorge gradualmente. Alcune molecole endogene, prodotte a livello periferico come l’Oea, non fanno altro che modulare questo fenomeno e accelerarlo”. Il tutto per dire al cervello di frenare l’appetito. Fino a questo momento non era noto come tale meccanismo d’azione fosse mediato a livello cerebrale. Si sapeva che nel cervello l’istamina era coinvolta nei meccanismi di riduzione della fame, ma esistevano anche altri candidati come la serotonina o i neuropeptidi. Per il resto un buco nero.

“Abbiamo avanzato diverse ipotesi sperimentali – argomenta Coccurello – e una di queste supponeva che il mediatore fosse l’istamina. Per provarlo siamo ricorsi a una serie di tecniche differenti e abbiamo condotto analisi a livello cellulare, immunoistologico, istochimico, farmacologico, molecolare”. La conferma delle ipotesi alla fine è arrivata. I ricercatori hanno dimostrato che il segnale di sazietà prodotto da Oea, durante il consumo di un pasto, attiva aree specifiche del cervello che usano l’istamina come neurotrasmettitore, favorendo così la cessazione dell’attività alimentare. Un collegamento, un passaggio di testimone tra intestino e cervello fino a questo momento sconosciuto. 

Nuove possibilità terapeutiche nella cura dei disturbi alimentari? “Lo studio rappresenta un importante passo avanti nell’ambito della ricerca di base, ma è difficile immaginare come possa tradursi direttamente in uno strumento terapeutico efficace nella cura di patologie come l’obesità ad esempio”. Coccurello tuttavia avanza alcune ipotesi, pur con le dovute cautele. “Si potrebbe pensare, anche se non nell’immediato, a degli integratori che incorporino la molecola Oea al loro interno così da essere utilizzati come adiuvanti nel controllo dell’iperfagia (la tendenza a mangiare troppo, Ndr) tipica di stati patologici come l’obesità o la bulimia. Integratori, dunque, in grado di ridurre la sensazione di fame”. Ma si tratta di una possibilità che deve necessariamente passare attraverso ulteriori indagini.

Lo studio pubblicato su Pnas è stato condotto da ricercatori dell’università di Firenze, dell’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) di Roma e del dipartimento di fisiologia e farmacologia dell’università La Sapienza di Roma. Un gruppo nutrito che ha collaborato per più di due anni. Nonostante l’importante traguardo, tuttavia, Coccurello non si esime dall’esprimere alcune riflessioni.

“Della ricerca scientifica ci si accorge quando si ottengono risultati di un certo rilievo. Si dovrebbero invece creare le condizioni per far sì che il frutto della caparbietà, dell’ingegno e delle capacità dei singoli non rimanga un fatto estemporaneo”. E si dovrebbe facilitare il raggiungimento di questi risultati con una certa frequenza e continuità attraverso maggiori investimenti in ricerca e politiche trasparenti di accesso ai finanziamenti.  

Coccurello ritiene che in Italia si lavori in condizioni di scarsa competitività. “Da un lato ci viene richiesto di misurarci a livello internazionale con altri gruppi di ricerca attraverso i medesimi criteri di valutazione. Giusto, in linea di principio. Poi, però, le condizioni concrete e materiali in cui si lavora nel nostro Paese sono molto diverse da quelle presenti all’estero”. Il ricercatore vede in questo un’ipocrisia di fondo. “In Italia – conclude – non siamo messi in grado di lavorare secondo gli standard internazionali”.

Monica Panetto

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