CULTURA

Il giunco mormorante di Nina Berberova

Succede forse a molti, di scoprirsi a costruire con la mente un mondo immaginario, in cui la vita reale si sovrappone a mille frammenti solo pensati, e in cui, con stupore, ciascuno si ritrova più sincero, perché lì tutto è possibile. Questo “spazio di verità” appartiene al singolo e solo a lui: nessun altro ha il diritto di entrarci; Nina Berberova lo chiama “terra di nessuno” e ci dedica un intero romanzo, dal titolo Il giunco mormorante (Adelphi, 1990).

 “Ognuno di noi ha la propria No man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’ altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale […]. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero […] anche soltanto un’ora al giorno, una sera alla settimana, un giorno al mese […]. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto […], un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso”.

La No man’s land della protagonista del romanzo è un amore interrotto dalla Seconda guerra mondiale, quando lei russa trapiantata a Parigi (come l’autrice) lascia che il suo uomo, Ejinar, ritorni a Stoccolma, città da cui proviene. Passata la guerra, si decide a raggiungere Stoccolma, chiamata da questioni di danaro, ma, nel subconscio, per mettere alla prova la realtà dei suoi sentimenti. Lì ritroverà Ejinar, sposato ed inserito in una vita ordinaria che nulla ha più dell’amore sospeso che hanno condiviso. La moglie è un’italiana pragmatica disposta a mostrare amicizia per il primo amore del marito, a cui però si guarda bene dal lasciare anche solo uno spiraglio perché possa far rinascere il vecchio sentimento.

Il romanzo è brevissimo, sole 79 pagine, fatte di parole piane che descrivono luci scandinave e case parigine polverose, ma che sono per l’autrice il mezzo per narrare di sentimenti e dinamiche umane. L’incontro tra la sensibilità di ciascun lettore e i pensieri non espressi della Berberova, poi, riempie ciò che non viene raccontato dalla trama: sono le motivazioni dell’agire umano ciò che l’autrice lascia intravvedere e di cui non fornisce esplicita spiegazione; riesce, cioè, a far intuire come funzioni la spontanea riflessione che ciascun uomo compie quando vive e agisce e che ha, per ciascuno, la potenza del comandamento sacro.

Cos’è la No man’s land, infatti, se non la libertà di ogni individuo? Quella libertà che possediamo tutti ed esercitiamo per il solo fatto di esistere? Quella di cui non dobbiamo rendere conto a nessuno, né al marito né alla madre o al padre? Se impariamo ad ascoltare quella nostra voce inespressa, da quel momento siamo liberi, perché possediamo uno “spazio di nessuno” che diventa il nostro, senza riserve.

Ejinar non varca mai i confini della “terra di nessuno”, ma vive la terra delle sue donne: fatta di interiorità e di estremi, quella a Parigi della prima amante; di lenzuola pulite, buon cibo e caminetto acceso quella norvegese della moglie. Assiste statico allo scontro tra le due donne e i loro modi di affrontare gli eventi: la vittoria, fa capire la scrittrice, è infine di colei che raggiunge la massima consapevolezza, senza scontare compromessi.

Come la protagonista de Il giunco mormorante, anche la Berberova lasciò andare l’amore di una vita, il poeta russo Vladimir Chodasevic, quando si sentì trascinare al fondo, ma non senza prima preparargli di che mangiare per tre giorni e rammendargli la biancheria. Russa, era all’ultimo anno di liceo quando venne la Rivoluzione d’Ottobre, visse l’esilio parigino cominciato poco dopo in miseria, scrivendo, per mantenersi, nella sua lingua madre “ch’è tutto” per lei, reportage, traduzioni, poesie. La maturità la trascorse negli Stati Uniti, dove insegnò a Yale e a Princeton, e dove morì.

Fu tacciata di anticomunismo, filonazismo e antisemitismo: si resta attoniti a scoprirlo perché Il giunco mormorante è un inno alla libertà. 

Fu sempre fedele alla sua patria e alla sua lingua: amò senza riserve gli autori russi del passato e del presente (fu amica di Pasternak e di Nabokov), ma non riuscì mai ad apprezzare i “moderni” come Brodskij, Solzenicyn e gli altri. Anche Brodskij, come lei ne Il giunco mormorante, scrisse di Venezia (Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1991), e proprio di lei ricalca la voce quando parla del “pizzo verticale delle facciate”, che lei chiamò “il merletto di pietra dei palazzi annerito dal tempo”.

Se poi nella “terra di nessuno” vale la sincerità assoluta, lì al lettore potrebbe venire di pensare che la Venezia di Nina Berberova, pochi tratti funzionali al suo narrare, non abbia infine eguali, nemmeno nelle parole di Iosif Brodskij.

 

Valentina Berengo

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