UNIVERSITÀ E SCUOLA

Insegnanti e meritocrazia: come stanno le cose

Articolo originale tratto dal mensile una città

Norberto Bottani, esperto di politiche scolastiche, è stato direttore del Servizio di ricerca sull’educazione del Canton Ginevra (Sred). Per più di vent’anni ha lavorato presso il Centro per la ricerca e l’innovazione nell’insegnamento dell’Ocse (Ceri) a Parigi. È attualmente residente a Parigi come analista indipendente delle politiche scolastiche che studia in un’ottica comparativa e su basi empiriche. Per il Mulino ha pubblicato, tra l’altro, Insegnanti al timone? (2002) e recentemente Requiem per la scuola (2013). 

Si è tornati a parlare di merito e pare si vogliano prendere provvedimenti precisi, di incentivi economici. Lei cosa ne pensa, anche alla luce delle esperienze fatte all’estero? 

Direi che sono un po’ allibito di fronte al discorso che si fa in Italia sul merito. Evidentemente sono molto influenzato dal dibattito in corso in Francia, ma anche oltreoceano, dove nessuno parla di merito, oppure se ne parla a proposito degli studenti, non certo degli insegnanti, e comunque si critica molto il concetto. Pertanto non riesco a capacitarmi della passione e dell’interesse suscitato in Italia intorno a un concetto molto fumoso, su cui oltretutto si è lavorato pochissimo, perché i professori italiani di scienze dell’educazione non si occupano di queste cose, si occupano di Aristotele, Platone, Cicerone, e i pochi economisti dell’educazione si occupano d’altro e neanche loro parlano di merito.

La realtà è che ci sono docenti bravi e altri meno bravi. Si può poi discutere della loro remunerazione, di come pagare chi è più competente, ma il merito non c’entra niente. Infatti nel mondo anglosassone e nel mondo francese, giustamente a mio parere, quando si parla di merito si pensa agli studenti, mai agli insegnanti.

La situazione italiana è molto arruffata, per usare un eufemismo, cioè si vuol valutare il merito degli insegnanti e al contempo più o meno tutti possono fare gli insegnanti: bravi, non bravi, competenti, non competenti, formati, non formati; una volta superati i concorsi si ha il diritto ad avere un posto nell’insegnamento. Ma la vera questione sta proprio nella formazione e nella selezione degli insegnanti, in una politica seria del personale insegnante: quanti ne occorrono, come si devono preparare, qual è il loro statuto giuridico, quali carriere si possono intraprendere nell’apparato scolastico e poi quale retribuzione prevedere. 

Effettivamente molti dicono che in assenza di una selezione iniziale, ogni discorso sulla valutazione perde di significato.

In Europa il problema viene affrontato con estrema cautela, perché tutti sanno che la questione della valutazione degli insegnanti è una bomba, un ordigno difficile da maneggiare, che può esplodere in qualsiasi momento, perché il mondo degli insegnanti è organizzato in un certo modo, e anche le politiche scolastiche hanno le loro dinamiche perché in politica ci sono molti insegnanti e poi ci sono le mogli o i mariti dei politici che fanno gli insegnanti, insomma, ci sono centinaia di migliaia di persone in ballo. 

Quindi in Europa si adotta molta precauzione e perlopiù si evita di parlarne. In Italia, la questione è stata sollevata in particolare da Attilio Oliva, dell’associazione Treellle, all’inizio subendo molto l’influenza del dibattito americano. Già qui andrebbe sottolineato che parliamo di situazioni molto diverse: negli Stati Uniti esiste una forte segregazione sociale ed etnica, che in Europa non c’è ancora, per fortuna. Per esempio, a distanza di cinquanta metri negli Usa si può avere una scuola frequentata solamente da studenti bianchi e un’altra frequentata da studenti di colore: una è bellissima e l’altra è uno sfacelo. Negli stati del Sud degli Stati Uniti la situazione è addirittura drammatica. Anche da noi c’è la discriminazione sociale, eccome, ma è meno visibile, meno lampante, quindi l’urgenza di trattare la questione della valutazione degli insegnanti assume significati diversi. Negli Usa la maggioranza degli insegnanti sono di colore; la professione è squalificata; le ingiustizie sono enormi. 

La valutazione degli insegnanti risulta da questo contesto e in particolare dalla pressione dei ceti medi, in maggioranza bianchi, per avere insegnanti competenti nelle scuole frequentate dai figli. Ci sono anche altre ragioni che adesso non evochiamo.

Uno dei punti su cui tutti sono d’accordo, soprattutto in Europa, è che non ci si può più accontentare di uno stipendio basato unicamente sull’anzianità, occorre cambiare modello. I primi ad aprire questo dibattito sulla necessità di cambiare la strategia di retribuzione degli insegnanti sono stati gli inglesi. Già una ventina d’anni fa circa, Margaret Thatcher, invece di aumentare gli stipendi degli insegnanti per scatti successivi e automatici, decise di aumentare le retribuzioni rapidamente agli inizi di carriera e poi di rallentare la periodicità degli scatti retributivi. Questo è un po’ il discorso che si è fatto in Europa riguardo la strategia retributiva, che è un discorso in gran parte sindacale, industriale, basato sull’anzianità degli anni di servizio che può essere ritoccata con scatti più o meno frequenti e regolari e più o meno identici. 

Negli Stati Uniti, invece, il problema non era tanto quello delle retribuzioni.

Apro una parentesi: le retribuzioni sono grossomodo le stesse dappertutto. È uscito a metà settembre l’insieme di indicatori sull’istruzione prodotto dall’Ocse dove si vede molto bene che ci sono delle differenze, ma non così significative. L’indicatore tiene conto del costo della vita, ma tutti sanno che esistono molti vantaggi in natura non inclusi nei calcoli. Gli insegnanti americani sono mediamente un po’ meglio pagati di quelli europei, ma parliamo di una differenza di circa duemila dollari l’anno, se ricordo bene. È dagli anni Venti che si raccolgono statistiche sulle professioni, c’è un ramo speciale della sociologia specializzato in questa questione. Da ottant’anni, novant’anni a questa parte, lo stipendio di base degli insegnanti, soprattutto degli insegnanti nelle scuole primarie non è cambiato molto; non è a un livello eccelso, tant’è che altre professioni "sociali” sono pagate meglio. Nella classifica degli stipendi il rango degli insegnanti è stabile e, se ben ricordo, si trova grosso modo tra il ventesimo e il trentesimo posto.

Tornando alla domanda, dicevo che negli Stati Uniti il problema non è tanto lo stipendio, la remunerazione, ma è piuttosto la qualità degli insegnanti. La maggioranza degli insegnanti americani sono di colore; i bravi vanno a insegnare nelle scuole per i bianchi, nelle scuole di élite o della classe medio-alta che abita nelle periferie delle metropoli, mentre i meno bravi vanno nelle scuole dei centri urbani o in quelle dei quartieri abitati in maggioranza da popolazioni di colore. La discriminazione razziale è fortissima, quindi il problema che i sindacati americani si pongono è quello della qualità dell’insegnamento e poi certo della remunerazione, che evidentemente non può avvenire in funzione dell’anzianità perché così si contraddice ogni discorso sulla qualità.

Andrebbe fatto anche un discorso sull’età degli insegnanti. Quando ancora non c’era né la scuola dell’obbligo né la scuola statale, i gesuiti nei loro collegi e nelle loro scuole impedivano l’insegnamento oltre una certa età. Si poteva insegnare solo finché si era giovani. In Inghilterra, dove si fanno queste statistiche, si sa benissimo che dopo un certo numero di anni l’entusiasmo, il piacere, la soddisfazione dell’insegnamento calano. Ecco, la remunerazione deve tener conto di queste considerazioni. Alla domanda se sia giusto fare l’insegnante per tutta la vita, alcuni paesi hanno risposto di no e si sono mossi conseguentemente. 

Ci sono paesi dove non si può fare l’insegnante per quarant’anni, dove l’insegnamento non è un posto per tutta la vita, un posto statale come quello del postino o del capotreno.

Questo per dire che ci sono tante variabili da prendere in considerazione per fare una politica seria del personale scolastico. È anche di questo che bisogna parlare,  anzi, soprattutto, conducendo degli studi, raccogliendo dati sulle competenze e le qualità del corpo insegnante.

Io ho lavorato alcuni anni della mia vita a Ginevra, e lì gli insegnanti dopo i cinquant’anni anni potevano chiedere di andare in pensione anticipata; ce n’era una quantità enorme che ne approfittava, uomini e donne; alcuni non ne potevano proprio più di insegnare e aspettavano questo momento. Una volta ritiratisi prendevano uno stipendio ridotto fino all’età ufficiale della pensione e da quel momento in poi ricevevano la pensione come se avessero insegnato fino alla fine; un meccanismo molto complicato che funziona tutt’ora; molto costoso anche. 

Questa politica ha permesso di ringiovanire moltissimo il corpo insegnante, perché i vecchi, quelli che non avevano più voglia d’insegnare, se ne andavano ed erano sostituiti da leve di giovani insegnanti motivati, formati con nuove idee. È tutta un’altra concezione del servizio scolastico. Anche qui parlare di merito mi sembra poco sensato.

Diceva delle scuole disagiate negli Stati Uniti, ma in Europa succede che gli insegnanti che accettano di andare in contesti difficili siano pagati di più? 

Succede anche se la differenza di stipendio non è molto importante. La si percepisce al momento del pensionamento. 

Anche qui andrebbe indagato se l’incentivo economico sia la formula giusta. Comunque in Francia succede: i giovani vengono mandati nelle regioni meno ambite, per esempio al Nord, un luogo dove si va malvolentieri, perché fa sempre brutto tempo; è un’area povera, dissestata, dove una volta c’erano le miniere di carbone; ecco, dopo i concorsi, i neo insegnanti sono costretti ad andare lì, dove guadagnano punti per poter poi chiedere un trasferimento nelle zone favorite, che sono Parigi o il Sud della Francia.

Tornando alla questione della valutazione, cosa si misura?

Il dibattito sulla misura della qualità o della competenza degli insegnanti è molto sviluppato negli Stati Uniti. Altrove ci si è rassegnati, si sa che purtroppo ci sono insegnanti non buoni e li si sopporta. Amen! Negli Usa invece il dibattito è molto vivace, sia dal punto di vista scientifico, che dal punto di vista politico e sindacale. L’Inghilterra copia più o meno quello che succede negli Stati Uniti però il mondo scientifico è più a sinistra, quindi è più critico rispetto a quello che fa il governo. Quello sulla valutazione è un dibattito molto interessante. Direi che ci sono due punti di convergenza: primo, la valutazione degli insegnanti è molto difficile, e in secondo luogo nella valutazione non ci può basare unicamente sui risultati, sui punteggi che conseguono gli studenti nei test. 

Su questo punto io sono d’accordo: non si può valutare l’insegnante solo sui punteggi medi che una classe consegue per esempio in matematica, fisica, o lettura (i tre grandi tipi di test che vengono fatti). Intanto perché ci sono altre materie, e poi le classi dipendono moltissimo da come sono composte, oltre al fatto che c’è una storia antecedente della classe o dell’alunno. Se poi c’è un insegnante che parte con una pessima classe all’inizio dell’anno e ottiene buoni risultati alla fine dell’anno, questo va riconosciuto. Voglio dire che la variabile "punteggi degli studenti” non deve essere esclusa, ma va tenuta in considerazione assieme ad altri fattori.

Diceva che negli Stati Uniti si valutano moltissimo gli insegnanti.

Sì, e succedono cose dell’altro mondo. Lì la valutazione è tesa anche a disfarsi, tra virgolette, degli insegnanti incompetenti. Perché ce ne sono e fanno disastri. Allora,  piuttosto che tenerli nella scuola a rovinare ragazzi generazione dopo generazione (bisogna anche aggiungere che gli alunni e gli studenti sanno difendersi benissimo), si mandano a casa. Lo scorso anno, per esempio, il "Los Angeles Times” ha pubblicato la lista dei pessimi insegnanti. Un giornalista è riuscito ad avere i risultati delle valutazioni degli insegnanti condotti dalla città e ha pubblicato la classifica. Si immagini cos’è successo. 

Anche a New York, che è il più grande distretto scolastico americano, si valutano gli insegnanti e si sa benissimo che c’è una porzione di persone che non dovrebbe fare l’insegnante. Siccome però queste persone sono protette, quando le valutazioni non sono positive, gli insegnanti non vengono licenziati ma si lasciano a casa. Cioè prendono lo stipendio, ma li si manda via da scuola. È come se andassero in congedo. Questo è un po’ l’accordo che si è trovato per non fare la guerra con i sindacati degli insegnanti. Beninteso, il meccanismo entra in azione dopo che ci si è accordati sulla pertinenza e la validità delle valutazioni. Parliamo di una città che ha soldi e che quindi può permetterselo. Non è una grande soluzione. Una buona soluzione sarebbe quella di mettere in piedi una vera politica degli insegnanti, quello che hanno provato a fare a Ginevra e che in Italia invece manca. Perché un’altra questione riguarda il come aiutare quelli che si accorgono che l’insegnamento non è il loro mestiere.

Le confesso che di tanto in tanto ricevo messaggi dall’Italia di persone che mi dicono: "Faccio l’insegnante perché mio papà lo faceva, è una tradizione di famiglia, ma non ne posso più, voglio cambiare, cosa posso fare?”. Io rispondo sempre che la prima cosa da fare è cambiare al più presto e farsi aiutare se necessario. Spesso si è di fronte a un problema personale. 

Anch’io appartengo a una famiglia di insegnanti: mio nonno era insegnante, mio papà era insegnante, ma non sono fatto per insegnare. Anch’io facevo l’insegnante, ma ho smesso. Il fatto è che è molto difficile capire se si è fatti per questo mestiere. A volte poi le persone nascondono i problemi, oppure non ammettono neanche a se stesse di non essere portate per l’insegnamento. Sono situazioni delicate.

In Francia esiste una clinica per insegnanti burnout.

È un luogo pensato per chi sta veramente male. È una clinica del ministero. A Milano c’è un medico molto bravo, Vittorio Lodolo D’Oria, che da tempo monitora il disagio mentale degli insegnanti e ha condotto indagini sulla frequenza dei casi di burnout, sulle cause e su come intervenire, ma questo è un altro discorso.

Sempre rispetto alla valutazione, bisogna valutare l’insegnante o lo staff, la scuola, cioè ha più senso tentare una valutazione collettiva o individuale?

Sono due cose diverse, vanno fatte entrambe. La valutazione del singolo ci vuole. C’è sempre stata, tra l’altro. Fin da quando c’era il precettore, le famiglie li valutavano: se erano adeguati li tenevano sennò li licenziavano. Era una forma di valutazione. Poi con lo Stato è nato un altro tipo di valutazione. Io ritengo che si debba valutare il sistema scolastico nella sua globalità, faccenda non semplice, ma anche i singoli insegnanti che d’altra parte valutano e stravalutano gli studenti. Ciò richiede metodologie valutative diverse ogni volta. Ritengo anche che si dovrebbe valutare l’amministrazione scolastica, i dirigenti scolastici. Anni fa in Italia era stato introdotto il principio della valutazione dei dirigenti scolastici, ma poi non se n’è fatto niente. Se è giusto valutare il manager di una ditta, perché non un dirigente scolastico? Non c’è ragione per non farlo. 

D’altra parte i presidi obiettano di essere dei dirigenti a metà, perché dotati di pochissima autonomia.

È un po’ come in Francia, dove la gestione del personale è in mano al ministero e ai sindacati. Altrove c’è una situazione più libera. In ogni modo si può iniziare a valutare quella metà di competenze attribuita loro, costruendo strumenti valutativi appositi.

Ma in Francia come funziona, c’è una valutazione trasparente?

No, non esiste nulla del genere. I francesi sono grossomodo come gli italiani. 

In Gran Bretagna, in Germania vengono pubblicate delle vere e proprie mappe dei risultati scolastici, che poi i genitori guardano prima di scegliere la scuola.

Sì, è vero, e le tabelle o le classifiche vengono pubblicate dai grandi quotidiani, ma in genere non sono nominative. Si pubblicano i risultati delle scuole nelle prove standardizzate e molte informazioni sulla composizione sia del corpo insegnante sia degli studenti che frequentano le scuole. In Inghilterra c’è l’Ofsted, che è un ente privato -prima era pubblico- che svolge le ispezioni. È un apparato che tra l’altro costa molto: già una trentina di anni fa erano quaranta milioni di sterline all’anno. Paga lo Stato. La valutazione non è gratuita, anche questo va ricordato: gli ispettori dell’Ofsted vanno nelle scuole in due, in tre. Non vanno a sorpresa. Si negozia dapprima la data, poi si stabiliscono i documenti da raccogliere, ossia la documentazione preliminare che il dirigente deve approntare. 

La squadra di ispettori resta una settimana, ha un piano di interviste che coinvolge anche gli studenti e i genitori; prima di andarsene, alla fine della settimana, gli ispettori partecipano a un incontro pubblico in cui annunciano le loro prime impressioni e ascoltano le reazioni. Dopodiché redigono una relazione e i risultati vengono inviati alla scuola e possono essere pubblicati a livello nazionale. Gli studenti non solo possono leggere la valutazione della loro scuola, ma anche interagire online per dire "siamo d’accordo”, "non siamo d’accordo”, "il team di ispettori non ha visto questo aspetto della scuola, che noi apprezziamo (o disprezziamo) molto”. Alcuni amici ricercatori anglosassoni, laburisti, vedono queste cose come il diavolo, altri le trovano utili. Certo, si possono anche commettere degli errori. E poi bisogna valutare se è opportuno pubblicare tali risultati. 

Se tutto questo serva o meno non lo so. Pare che i risultati scolastici in ogni modo siano migliorati. Quando le scuole non venivano valutate, si sapeva che in certi istituti alcune discipline venivano trascurate o non si facevano affatto. Oggi non si può più perché arrivano gli ispettori e la scuola deve dimostrare che fa quello che è previsto nei programmi.

Cosa succede alla scuola che riceve una valutazione bassa?

Una scuola che riceve una cattiva valutazione perde studenti, evidentemente, perché una parte delle famiglie non ci manderà più i figli. Questo discorso riguarda soprattutto le famiglie benestanti; non tutti possono infatti permettersi di mandare i figli in una scuola lontana o addirittura trasferirsi, cambiare domicilio.  Quando vivevo a Ginevra, dove non esiste la libertà di scelta della scuola, la legge prevedeva una scuola primaria ogni 400 metri, ed erano belle scuole, curate, ma Ginevra spende il 30% del Pil per l’istruzione. L’Italia spende il 4,5%. 

Dunque, come dicevo, le scuole con cattive valutazioni perdono gli allievi. Non solo: restano gli allievi più "deboli”. A quel punto se la scuola recupera, bene, se invece comincia un declino scattano tutta una serie di provvedimenti. Nel mondo anglosassone hanno una bella soluzione: si è adottato una sorta di gemellaggio tra scuole: si associa la scuola disagiata, in difficoltà, che funziona male, a una buona scuola; si mandano gli insegnanti della scuola d’eccellenza ad aiutare gli insegnanti della scuola debole. Esiste anche un centro di indagine scientifica nazionale che fornisce a richiesta della scuola indicazioni per migliorare i programmi di insegnamento. Una scuola può "liberamente” rivolgersi a questo ente e chiedere una mano. L’aiuto viene offerto ed è pagato dallo Stato. Grazie a questi aiuti in genere le scuole si riprendono. 

Quello che conta è che si mira molto al supporto, più che alla punizione. Si offre un aiuto attraverso specialisti esterni, oppure con colleghi di altre scuole ritenute valide. In Germania, in Svizzera, nei paesi scandinavi queste pratiche sono invece poco presenti, ma perché lì tutto viene giocato sulla selezione in ingresso degli insegnanti, che è molto rigorosa.

Barbara Bertoncin

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012