UNIVERSITÀ E SCUOLA

La differenza che non separa

In questi giorni l'amministrazione Obama e, nello specifico, il Department of Education che distribuisce i fondi federali alle scuole del Paese e stabilisce le linee guida dei programmi formativi, sono chiamati a valutare la compatibilità con le normative vigenti delle proposte di separazione delle classi tra maschi e femmine avanzate in molte scuole pubbliche statunitensi. C’è chi si chiede se questo “dilemma” vada considerato in termini di benefici e svantaggi educativi più che in termini politici. Si dà il caso, però, che i benefici e gli svantaggi di ogni scelta educativa e didattica si valutano in base a dei criteri, a delle evidenze, ma soprattutto in base a delle attese e a dei presupposti di natura non solo pedagogica, ma più largamente sociale ed etica. Ogni azione di politica scolastica, oltre che interferire su delle pratiche didattiche date, risponde ad una visione più o meno esplicita del ruolo e dei compiti dell’istruzione, ed è solo rispetto a questi che possiamo prevedere rischi e vantaggi. 

Se si riconosce alla scuola il ruolo e il compito di promuovere lo sviluppo armonico, pacifico e creativo dell’umanità e di ogni singolo uomo e donna, bambino e bambina, in tutte le sue forme naturali, sociali e culturali e nella sua complessità di espressioni, funzionamenti e trasformazioni, certo una “semplificazione” del contesto di insegnamento-apprendimento come quella delle classi separate per genere, dettata da distinzioni oppositive che riducono la differenza all’appartenenza sessuale, non sembra essere una scelta felice. Nei fatti, cercare di ricreare nella realtà complessa dei contesti di vita le “classi” logiche e le classificazioni biologiche mi sembra un’operazione miope, che non coglie né il senso delle classificazioni né il senso della differenza come costante essenziale dello sviluppo umano. 

In termini scientifici, c’è chi ritiene che la separazione tra maschi e femmine a scuola favorirebbe l’apprendimento. Ciò perché esisterebbero stili cognitivi e di apprendimento differenti tra gli uni e gli altri. In verità, anche così la questione appare semplificata e mal posta, nella misura in cui parole come “apprendimento”, “cognizione”, “intelligenza” non si riferiscono a fenomeni naturali univoci e incontrovertibili, ma piuttosto a dei costrutti scientifici che non solo sono continuamente rivedibili nella ricerca, ma che nel tempo e nelle culture si sono riferiti a processi diversi. Altrettanto può essere detto dei concetti di genere, come “maschio” e “femmina”, a loro volta esito di complesse, stratificate e spesso non comparabili costruzioni sociali e linguistiche. 

Nonostante gli esiti interessanti raggiunti nell’ambito delle neuroscienze, anche con strumenti nuovi come il brain imaging, un collegamento diretto e causale tra le differenze nelle strutture e nelle funzioni tipicamente presenti nei cervelli femminili e maschili e le caratteristiche ormonali legate al sesso resta tutto da dimostrare mentre invece appare sempre più evidente che esiste un rapporto di interdipendenza tra i processi neuronali e l'ambiente, tra lo sviluppo di funzioni fondamentali come l’emergere del “sé” e le sollecitazioni emotive, fisiche e socio-culturali del contesto di vita. 

Dunque, le differenze emergono come risultato dell’interazione tra le caratteristiche biologiche di ognuno/a e i fattori contestuali che favoriscono oppure ostacolano l’attività e la partecipazione nei contesti di vita (come ci suggerisce il modello bio-psico-sociale di salute e benessere proposto dall’Organizzazione mondiale della sanità). Stabilire a priori le differenze significa delimitare il tipo di sollecitazioni e il numero delle occasioni per lo sviluppo dei talenti e dei potenziali individuali, trasformando l’atto dell'istruzione in una azione di restrizione delle opportunità e delle direzioni possibili dello sviluppo. Anche prendendo in considerazione i risultati delle ricerche empiriche sulle classi separate per sesso e gli esiti di apprendimento, ne risultano dati controversi per confrontabilità e generalizzabilità

Non solo: resterebbero in ogni caso da ridefinire le priorità che la scuola attribuisce agli esiti di apprendimento: migliori risultati nei test di matematica? Successo nelle prove standardizzate? Un miglior senso di auto-efficacia? O piuttosto miglior capacità di convivenza, cittadinanza, resilienza, intraprendenza, resistenza e creatività? E cosa dire poi delle priorità date alle così dette “life skills” tanto auspicate dall’OMS? Delle attitudini al dialogo, al rispetto, alla solidarietà, che passano attraverso l’abitudine al confronto, alla contaminazione, alla co-evoluzione tra differenze? Resta poi il dubbio se, a ipotetici stili di apprendimento maschile e femminili distinti, debbano corrispondere stili di insegnamento analoghi… con tutte le complicazioni teoriche e pratiche del caso, specie in un contesto di docenza “al femminile” diffusa. 

Spesso proprio la prevalenza di una componente massiccia “di genere” nel corpo docente è stata vista come una “minaccia” alla pluralità di modelli che concorrono alla costruzione dell’identità, specie in età adolescenziale. Analogamente credo che nella continuità dell’esistenza, che va dai primi anni di vita fino alla senilità, segnata da svolte e tappe “critiche” come quella dell’adolescenza, debbano essere proposti modelli plurimi di riferimento e molteplici occasioni di modellamento della propria identità. C’è una sorta di “apprendistato cognitivo” che attraversa tutte le fasi di costruzione e decostruzione della nostra “identità”; fermo restando che nemmeno tale concetto è univoco, singolare, universale. Come lo splendido “Visconte dimezzato” di Calvino o l’insuperabile “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello ci insegnano. 

Mi chiedo invece se sia legittimo, da parte della scuola, chiedere a ragazze e ragazzi di assumere il genere sessuale come tratto saliente della propria identificazione personale, ripiegando il proprio “curriculum vitae” su di un curricolo scolastico “politicamente corretto”. Penso al contrario che ciò possa essere considerato un atto limitante, addirittura oppressivo, per molte studentesse e studenti in cerca, con diritto, della “propria” sessualità come componente identitaria dotata di sfumature di grigio (o di azzurro e di rosa) e di variazioni narrative. C’è poi da chiedersi a che idea di “femminile” e “maschile” ci si riferisce, entro contesti multiculturali variegati come quelli in cui la scuola si trova ad operare, e dunque in che direzione verrebbero offerti gli insegnamenti per rispettare una ipotizzata differenza biologica di genere. 

Contestare la ripresa di simili “dilemmi” mi sembra semplicemente coerente con una cultura inclusiva e dunque non omofoba e con una educazione orientata al benessere come condizione dell’apprendimento significativo e del successo formativo. Nello specifico, il benessere si nutre del rispetto delle differenze e non del restringimento delle occasioni per incontrarle in contesti protetti come la scuola. Dubito che il maschilismo si superi riducendo le opportunità di superarlo con l’esperienza. Mantenere vivo il valore e riconoscere il vantaggio dell’eterogeneità mi sembra anche un discreto correttivo alle situazioni familiari mononucleari e con figli unici che soffrono già di per sé di penuria di incontri e confronti identitari. 

D’altra parte esistono anche in Italia realtà scolastiche definite “sperimentali” in cui maschi e femmine apprendono in aule separate. Ma le realtà scolastiche “single-sex” si possono trovare entrando in un qualsiasi istituto professionale o in un liceo sociale… e questo già la dice lunga sugli ipotetici vantaggi e sulla “naturalità” delle separazioni. Le “sperimentazioni” presenti in diverse città italiane, soprattutto in scuole private e confessionali, di classi separate per sesso non mi pare offrano alcuna garanzia scientifica, sia sul piano teorico che su quello metodologico: le componenti in gioco nei diversi ambienti scolastici sono moltissime, non controllabili e spesso non comparabili. 

Resta comunque inalterato il problema di fondo, al di là di ogni giustificazione circoscritta ad alcuni esiti “positivi” di rendimento scolastico: rispettare, tutelare e valorizzare le differenze può passare per la separazione? Le nostre politiche di piena inclusione, adottate da oltre trent’anni in relazione alle differenze funzionali degli alunni e alunne con disabilità, suggeriscono e anzi impongono il contrario, a vantaggio di tutti! Il Department of Education degli Usa a mio parere dovrebbe guardare proprio all’Italia e ripartire da qui. Dal nostro Paese, che ha adottato una politica inclusiva proprio per promuovere la cultura dell’inclusione e per chiedere alla scuola di trasformarla in pratica quotidiana di valorizzazione dell’incontro tra le differenze.

Il vero “dilemma” del nostro sistema-scuola e di ogni insegnante oggi è quello di individuare i mezzi per garantire il successo formativo “di tutti e di ciascuno”, che corrisponde alla capacità di “includere differenziando” e “differenziare includendo”. Non si tratta di differenziare le classi, ma di differenziare la didattica nelle classi e oltre la classe. I problemi logistici della didattica che all’inizio del Novecento condussero il Ministro Orlando ad introdurre le classi miste oggi ci dovrebbero indurre non tanto a discutere di classi separate, ma del senso che hanno le classi come unità base per la didattica. La nuova didattica chiede ambienti di apprendimento flessibili, aperti, multifunzionali, accessibili. La risposta dell’architettura scolastica e dell’interior design contemporaneo sono spazi ricchi e dinamici, adatti alla differenziazione costante dell’offerta formativa e delle metodologie e strumenti di insegnamento, per ottimizzare i vantaggi dell’eterogeneità della popolazione scolastica e favorire l’incontro. 

È questa la nuova sfida che abbiamo di fronte e la storia italiana può insegnarci molto per affrontarla, non cedendo alla tentazione di tornare indietro ma imparando dai grandi maestri e maestre - come Lodi, Don Milani, Montessori, le sorelle Agazzi – a costruire sulla sinergia tra le differenze l’emancipazione sociale e l’innovazione didattica. 

Marina Santi

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012