CULTURA

L'ultima cena. Pensateci

Da tempo nota anche in Italia, l’espressione americana comfort food è stata aggiunta al Webster’s Dictionary nel 1972, definendolo come “quel cibo che garantisce un senso di benessere emozionale, e cui una persona ricorre per ottenere sollievo immediato, sicurezza o ricompensa”. Come quando si mangia la Nutella a cucchiaiate dal barattolo per cercare un momento di felicità nello sconforto: la ricerca, attraverso l’alimentazione, di un rinnovato equilibrio, cosa diversa, anche se di poco, rispetto al raptus alimentare (binge), ovvero il desiderio irrefrenabile e coatto di ingurgitare cibo.

L’“alimento confortante”, diversamente dall’oggetto del raptus, infatti, riporta al palato un sapore ben noto ed emotivamente carico, che richiama alla mente un ricordo d’infanzia o è legato ad un momento di socialità e condivisione. È la componente psicologica e culturale a dare la sensazione di sollievo, più di  quella chimica, che invece è predominante nella soddisfazione della fame improvvisa. Ne fanno parte, a buon diritto, cibi come i carboidrati e i dolci, che stimolano la produzione di serotonina, il neurotrasmettitore efficace nelle forme depressive, ma è in generale capace, di qualunque cosa si tratti, di riportare il buon umore. 

Secondo una statistica di Roberta Schira, esperta di “cucinoterapia”, i comfort food italiani più comuni sono latte, cioccolato, pane e pasta o amidi in genere; al Nord prevalgono la polenta, il pane con burro e zucchero, il purè di patate, la minestra di riso e latte, l’uovo sbattuto e il semolino, mentre al Centro e al Sud il comfort food è fatto di pasta al sugo, minestre di legumi e pane condito con olio e sale.

In America, neanche a dirlo, rientrano nei cibi "comfort" il milk-shake, il pollo fritto e le patatine, come appare evidente dopo una visita alla mostra fotografica del neozelandese Henry Hargreaves, inaugurata lo scorso 7 settembre all’Isola di San Servolo a Venezia, dal titolo “No seconds: comfort food e fotografia”. Nel Museo della Follia, sede dell’ospedale psichiatrico di Venezia fino al 1978, anno dell’introduzione della legge Basaglia, il visitatore viene introdotto al tema della “natura morta” dei cibi preferiti da qualche scatto rubato all’intimità dei desideri delle star che stanno per esibirsi (orsetti di gomma per Marilyn Manson, caffè e tè per Prince, pollo al forno con aglio e pepe per Beyoncé), ma è solo quando sale al primo piano, dove è allestita l’esposizione permanente del Museo della Follia, che comprende l’indicazione “no seconds” del titolo della mostra, e ne resta spiazzato. 

Ecco ad accoglierlo, in questo secondo ambiente, foto di pasti imbanditi la cui disarmante normalità è però sommamente inquietante: appese alla parete lungo un angusto corridoio stanno, infatti, le riproduzioni fotografiche di Hargreaves delle “ultime cene” richieste dai condannati nel braccio della morte delle carceri americane, la sera prima dell’esecuzione. L’elemento fortemente distonico è il fatto che l’autore abbia voluto ricreare in studio la combinazione di alimenti scelti condannati a morte in veste “pop”: sembrano davvero cenette preparate da una mamma premurosa, disposte su vassoi colorati o tovagliette a fiori o scacchi. Solo quando l’occhio passa a leggere la didascalia che illustra il nome del condannato, l’età, il reato commesso ed il tipo di morte inflitta, la mente realizza lo scarto tra il disperato ultimo desiderio di normalità attraverso un sapore amato e quel che attende il commensale poche ore dopo. 

Teresa Lewis, 41 anni, colpevole di omicidio e rapina, uccisa con l’iniezione letale, ha chiesto pollo fritto, piselli con il burro e torta di mele; Ted Bundy, pluriomicida, necrofilo, violentatore non ha voluto scegliere una cena speciale: gli è stata allora portata l’ultima cena tradizionale a base di bistecca, uova fritte, patate fritte, pane tostato con burro e gelatina, latte e succo di frutta; Ronnie Threadgill, invece, aveva chiesto pollo al forno con purè di patate e salsa, piselli dolci, pane, tè e punch, ma la possibilità di scegliere gli è stata negata perché dal 2011 il Texas ha abolito la tradizione dell’ultimo pasto – un rito che secondo lo storico della pena di morte K. William Hayes risale all’antica Grecia e alla Cina, per scongiurare l’infestazione dei luoghi da parte del fantasma del condannato negli anni a venire. C’è anche chi, come Angel Nieves Diaz, ha rifiutato di cenare, o chi, come Ricky Ray Rector, non ha mangiato la torta di noci dicendo alla guardia che “l’avrebbe tenuta per dopo”.

L’impatto emotivo di fronte alla disarmonia tra l’elemento di normalità (la familiarità del cibo prediletto e del comportamento del condannato) e la morte che incombe è così forte che l’occhio fugge in cerca di riposo guardando altrove. Finisce, invece - trovandosi all’interno di un museo sulle tecniche di cura utilizzate nei manicomi - per mettere a fuoco apparecchi per l’elettroshock, docce per l’idroterapia a base di getti gelidi, catene, camicie di forza, file di boccette di medicinali come bromuro e simili, ritrovando lo stesso tipo di alienazione e distonia che si avverte nelle opere del fotografo. Come può una cura coincidere con una tortura? Come si può chiedere di scegliere un menu per una buona cena a chi l’indomani mattina verrà freddamente giustiziato?

Hargreaves spiega di aver scelto volutamente di far identificare lo spettatore con il prigioniero, attraverso la sua richiesta alimentare, per restituirlo un’ultima volta, agli occhi di chi guarda l’opera, come una persona, e in fondo confermando che, nella fragilità, ogni essere umano si rifugia in quanto di più terreno ha, anche se ancora per poco: il corpo e quello che questo gli può far provare. Anche, e fino all’ultimo secondo, attraverso il proprio “cibo dell’anima”.

Valentina Berengo

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