SCIENZA E RICERCA

Mantenersi giovani: Dracula aveva ragione

Tre studi pubblicati recentemente su Science e Nature Medicine sembrano proprio dar ragione a Dracula: avete letto bene, nessun errore di battitura. Esperimenti condotti per ora sui topi dimostrerebbero, infatti, che la trasfusione di sangue di animali giovani in animali più anziani invertirebbe i processi di invecchiamento con effetti positivi sia a livello muscolare che cerebrale. Trovato l’elisir dell’eterna giovinezza?

Entriamo un po’ nel dettaglio. All’University of California di San Francisco il gruppo di ricerca coordinato da Saul A. Villeda, attraverso un procedimento detto di parabiosi eterocronica (con cui vengono collegati chirurgicamente i sistemi circolatori di due animali della stessa specie ma di età diverse) e iniezioni di plasma da topi giovani a topi vecchi, ha osservato la possibilità di contrastare e invertire gli effetti dell’invecchiamento cerebrale a livello strutturale, funzionale e cognitivo. L’area del cervello sotto esame era quella deputata alla percezione degli odori. “Qualcosa nel sangue dei topi giovani – sottolinea Villeda – induce l’attivazione del fattore di trascrizione Creb, il principale regolatore dell’attività dei geni nel cervello, che è associato alla formazione di nuove connessioni tra i neuroni implicati nei processi di memoria e apprendimento”. L’attivazione del fattore di trascrizione Creb, che diminuisce con l’avanzare dell’età e in patologie come l’Alzheimer, influirebbe sulla plasticità delle sinapsi e migliorerebbe dunque i deficit cognitivi legati all’età.

Ad Harvard si arriva alle stesse conclusioni. Nel sistema nervoso centrale adulto, evidenziano i ricercatori guidati da Lee Rubin, la vascolarizzazione delle parti del cervello (le nicchie neurogeniche) in cui vengono generati nuovi neuroni (neurogenesi) regola il comportamento delle cellule staminali neurali. Il declino della neurogenesi e delle funzioni cognitive legato all’età è associato alla riduzione del flusso sanguigno e alla diminuzione delle staminali neurali. Sulla base di queste premesse gli scienziati ipotizzarono che ripristinando la funzionalità di quelle aree cerebrali si potessero contrastare gli effetti dell’invecchiamento. E in effetti la conferma è arrivata. La ricerca ha dimostrato che il sangue giovane induce un aumento delle staminali neurali e dei cambiamenti a livello vascolare che incrementano la neurogenesi. Responsabile di questi effetti, sostengono i ricercatori, è la proteina GDF11, presente in quantità superiore nel sangue dei giovani.

Questa proteina, poi, avrebbe effetti rigeneranti non solo a livello cerebrale, ma anche muscolare. A sostenerlo Amy Wagers dell’Harvard Stem Cell Institute e il suo gruppo. Gli esperimenti sono stati condotti anche in questo caso attraverso parabiosi e iniezioni di GDF11 nei topi anziani. Ebbene, dopo quattro settimane è stato osservato un aumento delle cellule staminali muscolari (le cellule satelliti) e una diminuzione del materiale genetico danneggiato dall’età. Con effetti positivi sulla forza e la resistenza muscolare. Wagers non è nuova del resto a questo campo di ricerca, se si considera che già nel 2013 aveva dimostrato come il sangue di topi giovani avesse effetti positivi anche sul muscolo cardiaco.

“La scoperta di sostanze nel sangue di topi giovani che fanno ‘ringiovanire’ gli anziani e, viceversa, di altre negli animali anziani che fanno invecchiare i giovani (ricerche di Thomas A. Rando della Stanford University del 2005, ndr) – spiega Enzo Manzato, direttore della clinica geriatrica dell’azienda ospedaliera di Padova – non è conquista recente”. E in effetti fu Clive M. McCay della Cornell University, negli anni Cinquanta del Novecento, a dare inizio a questo genere di studi attraverso esperimenti di parabiosi. “Ciò che vi è ora di nuovo è l’individuazione delle cause che stanno a monte, l’aver stabilito cioè quali sono le cellule coinvolte nei processi osservati”. Si tratta di un buon punto di partenza, anche se la strada per arrivare all’uomo è ancora lunga. “Gli orizzonti che si aprono sono estremamente interessanti – continua – in quanto si potrebbero usare queste informazioni per cercare dei mezzi con cui influenzare l’invecchiamento nell’uomo: una sostanza chimica, una proteina (come la GDF11 ad esempio), un preparato”. Ma sarà prima necessario continuare gli studi sul modello animale e, in un secondo momento, traslare e verificare le conoscenze acquisite sull’uomo. Sarà importante prima conoscere l’uomo e il processo di invecchiamento, perché solo con queste premesse si può pensare di intervenire. Alla biologia molecolare, sottolinea Manzato, sarà fondamentale unire la pratica clinica sul paziente.

Sulla stessa linea Livio Trentin ematologo dell’università di Padova che sottolinea: “La proteina GDF11 ha un ruolo molto importante a livello cerebrale e muscolare sull’angiogenesi (lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni a partire da altri già esistenti ndr), poiché migliora l’ossigenazione e il mantenimento dei tessuti. Tanto che in futuro, dopo che gli studi saranno stati condotti anche sull’uomo, potrebbe costituire un possibile bersaglio terapeutico”.

Secondo gli esperti, l’ambito nel quale si intravvedono le ricadute maggiori è quello neurologico: se le ricerche dovessero dare riscontri positivi anche sull’uomo, si potrebbe pensare a nuove cure per malattie come l’Alzheimer o le demenze senili. E non si escludono nemmeno applicazioni a livello muscolare, sul cuore ad esempio.   

Da qui a 20 anni, dunque, potremmo avere a disposizione un farmaco in grado di arrestare i processi di invecchiamento. Fantascienza? Non proprio. “Si tratta di un’ipotesi plausibile – conclude Manzato – anche se non è possibile stabilire i tempi”. Se il progresso scientifico procede spedito, la prudenza non è mai troppa quando si parla di elisir dell’eterna giovinezza.

Monica Panetto

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