UNIVERSITÀ E SCUOLA

Marco Lodoli, una scuola con le finestre aperte

Mentre il DEF (triste prefisso usato per lemmi deficitari) fresco di stampa tenta di alleviare le sofferenze economiche del nostro Paese, leggiamo il nuovo libro di Marco Lodoli come una diagnosi dei mali della scuola e della società e un indirizzo (sempre a voler attingere al lessico politico-amministrativo) di possibile cura o almeno di forte lenimento. Vento forte tra i banchi (Erickson, 2013) raccoglie, come già l'amato Isole, una scelta degli articoli dell'insegnante e scrittore pubblicate sulle pagine romane di Repubblica. In ognuna delle sue 40 brevi riflessioni, illuminate dal dono della sintesi e dalla capacità di disvelamento, Lodoli prende un tema, lo racconta con  grazia, ne trae conclusioni utili e limpide verità. È come consultare un I Ching moderno, una raccolta di aforismi pratici e niente affatto stucchevoli, un referto scritto da un poeta per giunta divertente. 

Non è molto chiaro così? Andiamo al dunque: il mondo che Lodoli racconta dal suo punto di vista (osservatorio privilegiato, direbbero nelle Istituzioni), la cattedra di una scuola professionale di borgata, è pervaso dal più profondo disincato e dalla cronica mancanza di mezzi.  Risultato, la peggiore delle disgrazie che possano colpire un giovane (il giovane con quattro "g" di cui discettano in tutti i Tavoli di Lavoro quelli che ce l'hanno, il lavoro): la consapevolezza di essere tagliati fuori in quanto sprovvisti dei così definiti "mezzi economici e relazionali" ovvero e più prosaicamente, fuori dal gergo burocratico, conoscenze e raccomandazioni garantite da un famiglia benestante e inserita alle spalle. La rassegnazione a un destino ineluttabile cui si può contrapporre al massimo una risata senza allegria, quella della risposta "me piace solo fa' il matto" alla domanda "Che ti piace fare?" del professor Lodoli. 

Al contrario della stragrande maggioranza dei suoi alunni Lodoli però non si rassegna; non manda giù le domeniche al centro commerciale, l'incapacità di concentrarsi persino per i novanta minuti di una partita di calcio, la solitudine di famiglie private oggi anche dell'ingombrante codazzo dei parenti nel convivio del dì di festa (da questo punto di vista, se la cavano meglio gli immigrati dalle magre ma chiassose mense familiari. Anche se poi sono politicamente scorretti con altri immigrati, e questo è un altro discorso ancora trattato nel libro). 

A tutto questo Lodoli oppone il dialogo, l'ascolto, la disponibilità a fare i conti con un tempo divenuto feroce in cui i ragazzi che gli sono affidati alcune ore al giorno hanno la ventura di trovarsi a crescere. Usa, Lodoli, l'arma della cultura umanistica e dell'indignazione costruttiva (la più grande è quella davanti alla schiacciante dicotomia tra scuola pubblica e privata: desolante mancanza di carta igienica da una parte, impeccabili tappeti erbosi per lo sport dall'altra), raccontando, insegnando e soprattutto molto imparando. Nella convinzione che tutti possano aprire una finestra "e fare entrare il vento e un paesaggio inaspettato": le benefiche folate che scorrono in queste pagine, le raffiche forti cui allude il titolo che spirano tra i banchi di scuola che - spiega l'autore in prefazione - somigliano sempre più a banchi di nebbia. 

Di paesaggio Lodoli parla molto, anche indirettamente, proprio perchè si muove in periferia, il luogo poco fotogenico ma pieno di energia di cui parla anche Renzo Piano. Un paesaggio su cui ad affacciarsi sono gli stessi studenti per cui spende parole miracolose, quasi un manifesto dell'insegnamento, nel pezzo in cui affronta il tema doloroso della sindrome del burnout degli insegnanti. "Io invece penso di essere fortunato. Il mondo cambia di continuo e io sono lì, nella postazione migliore per comprenderlo...gli adulti sono infinitamente peggiori...schiavi della coazione a ripetere...più vogliono avere ragione, più si distanziano dalla vita. In classe questo non accade. Simo tutti lì a imparare qualcosa".

E se la scuola è il  riflesso della cattiva politica e della cattiva società la metafora più calzante di Lodoli per lo stile della nuova Italia non è quella del lupo e dell'agnello, (abbiano pazienza lui, Esopo, Fedro e La Fontaine) ma quella del ticche tacche, apprezzata  formula vincente del calcio spagnolo che fa capolino nel pezzo "L'utilità delle metafore calcistiche a scuola". Una volta, un altro romano come Lodoli, De Gregori, il giocatore lo vedeva dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia. Ora "somiglia al computer, così preciso e inesorabile, senza scarti"; "somiglia al nostro tempo impersonale, a un foglio di carta millimetrata: e se non ti piace c'è il cestino della carta straccia, pieno di aeroplanini e di sogni". 

Quelli che il vento giusto, il caso e un buon insegnante volenteroso possono contribuire a fare ancora volare.

Silvia Veroli

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