SCIENZA E RICERCA

Volete ricordare tutto? È possibile. Ma potreste pentirvene

Tra i numerosi motivi per cui Ingrid Bergman meriterebbe di passare alla storia, c’è anche quello di avere elaborato la ricetta della felicità, una ricetta all’apparenza semplicissima, visto che consta di due soli ingredienti: buona salute e cattiva memoria. Ma se la splendida interprete di Notorious e di Europa ‘51 aveva ragione, allora non ci sono parole sufficienti per commiserare i  33 sventurati – tanti ne sono stati finora censiti nel corso di svariate ricerche – che condividono lo stesso, singolare destino: quello di ricordare tutto, ma proprio tutto, della loro esistenza.

Descritta per la prima volta nel 2006 in uno studio pubblicato sulla rivista specializzata Neurocase e oggetto ora di un articolo di Randy Rieland uscito sul sito dello Smithsonian, la ipertimesia (questo il nome attribuito alla – per fortuna rarissima – sindrome) consiste appunto in una prodigiosa memoria autobiografica: chi ne è dotato o più precisamente, chi ne è affetto, può rievocare, senza sforzi apparenti e senza avere praticato nessuna forma di mnemotecnica, ogni singolo giorno della sua vita, a partire dall'adolescenza e in diversi casi anche da prima.  Che si tratti per molti versi di una maledizione, è fuori di dubbio: la prima persona ufficialmente diagnosticata come ipertimesica, AJ, poi uscita allo scoperto con un nome, Jill, un cognome, Price, e una immancabile autobiografia,La donna che non può dimenticare, uscita in Italia nel 2011 da Piemme, ha dichiarato in più occasioni che questo flusso di ricordi, “incontrollabile e logorante”, è un vero fardello, anche perché – a dispetto di ogni logica apparente – la sua incredibile memoria si applica solo alla sfera personale e non le è stata di nessun aiuto negli studi.

Una ricerca recentissima, condotta su 11 ipertimesici da un gruppo di scienziati della University of California, Irvine, e pubblicata sulla rivista Neurobiology of Learning & Memory, ha ora consentito di sapere di più su questa sindrome, anche se gli scienziati si sono limitati a mettere in fila i dati emersi, senza trarre conclusioni. Quello che è certo è che il cervello dei soggetti presi in esame presenta alcuni tratti caratteristici evidenti: in particolare le connessioni di materia bianca fra parti mediane e parti frontali sono più accentuate rispetto al normale. (Da non molti anni si è scoperto che la materia bianca, un tempo considerata come un tessuto passivo e dunque in certo senso subordinato rispetto alla “nobile” materia grigia neuronale, gioca un ruolo molto importante nello sviluppo del cervello). Inoltre, fra gli ipertimesici analizzati è stata riscontrata una comune tendenza a collezionare (riviste, scarpe, francobolli, cartoline...) e dunque a catalogare. Ma in che modo questo fatto si colleghi al loro eccezionale serbatoio di ricordi è – almeno adesso – impossibile dire.

È però interessante mettere a confronto questi risultati con gli ultimi studi sui meccanismi della memoria autobiografica, raccolti dal giornalista scientifico Charles Fernyhough in un libro, Pieces of Light: How we Imagine the Past and Remember the Future, pubblicato qualche settimana fa da Profile Books. Infatti, a differenza di quanto accade con gli ipertimesici, in certo senso inchiodati ai loro ricordi, per la maggior parte di noi rievocare gli avvenimenti passati è un procedimento fluido all'interno del quale collaborano diverse parti del cervello, che combinano – come ha notato Fernyhough sul Guardian – “frammenti di memoria sensoriale con una conoscenza più astratta degli avvenimenti e li riassemblano in base alle esigenze del presente”.

Questo dinamismo dei ricordi, il loro “riconsolidamento”, per usare il termine tecnico, avrebbe tra l'altro una funzione positiva nell'adattamento umano, perché – è ancora Fernyhough a parlare – “ci sono solo limitati vantaggi evolutivi nell'essere capaci di rammentare quello che ti è accaduto, mentre è fondamentale saper usare quelle informazioni per affrontare quello che ti capiterà”.

Le ricerche nel campo della memoria comunque continuano, regalandoci a volte risultati bizzarri (sembra per esempio, sulla base di uno studio britannico, che gli accordatori di pianoforte sviluppino capacità non comuni in questo senso). Ma, a proposito della malleabilità dei ricordi, non si può non concludere citando Rashomon, il grande film di Akira Kurosawa, dove lo stesso avvenimento viene rievocato in modo diverso da cinque persone, senza che alla fine sia dato sapere come sono andate veramente  le cose. Che il cinema sia il luogo giusto per accostarsi alle neuroscienze?

 

Maria Teresa Carbone

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