UNIVERSITÀ E SCUOLA

Dottorato, un titolo da valorizzare anche fuori dagli atenei

Quale futuro professionale si prospetta ai neodottori di ricerca? È la domanda cui l’Adi, l’associazione che rappresenta quanti hanno intrapreso o completato un dottorato, ha cercato di rispondere con un’indagine tra 549 giovani coinvolti in studi dottorali nel nostro Paese. E i risultati non sono scontati: secondo l’associazione, oggi solo l’8,4% dei dottori di ricerca riesce a inserirsi stabilmente nelle università italiane. Un dato che fa riflettere: malgrado le iniziative per incrementare le assunzioni di giovani ricercatori, a livello nazionale gli atenei faticano a trovare risorse per trattenere tutti i “PhD”, che devono quindi guardare a un orizzonte più ampio rispetto alla carriera accademica.

Come è noto, la legge Gelmini ha previsto che i laureati in possesso del dottorato possano concorrere a due tipi di posti da ricercatore: quelli di tipo “a”, a termine, e quelli di tipo “b”, che dopo tre anni a tempo determinato rendono possibile la conferma in ruolo come professore associato. È proprio la difficoltà per gli atenei di assumere ricercatori “b”, destinati all’inquadramento stabile, che determina l’abbandono dell’attività di ricerca da parte di tanti neodottori. Una buona notizia, per la verità, viene dalla recentissima approvazione del “decreto milleproroghe”: l’articolo 1 comma 10-octies permette per la prima volta di accedere alle selezioni per ricercatori “b” anche a chi ha ottenuto un assegno di ricerca triennale post-legge Gelmini (titolo diffuso tra i dottori di ricerca); in precedenza questo requisito non era ammesso tra quelli che consentono di partecipare al bando, e si apre quindi uno spiraglio in più per quanti aspirano a diventare professori. Una prima opportunità viene dal piano straordinario per l’assunzione di 861 ricercatori di tipo “b” bandito dal Miur pochi giorni fa.

Anche se le risorse aggiuntive lasciano ben sperare, è però indubbio che la maggioranza dei “PhD” deve guardare ad impieghi extrauniversitari. Se i dati occupazionali sono positivi (oltre il 90% dei dottori di ricerca lavora a quattro anni dal conseguimento del titolo), ben più basso è il grado di soddisfazione: il 39% degli intervistati non rifarebbe lo stesso corso di dottorato, perché ritiene comunque difficoltoso il percorso verso un lavoro stabile e coerente con gli studi compiuti. L’analisi di Adi e le proposte degli interpellati si concentrano su tre direttrici: scuola, impresa, pubblica amministrazione. Per la scuola, il problema è la scarsa spendibilità del titolo nel percorso verso l’insegnamento: la frequenza al dottorato è incompatibile con i Tfa, i tirocini che consentono ai laureati di ottenere l’abilitazione (chi già segue un corso di dottorato deve quindi sospenderlo per frequentare i Tfa). Il titolo di dottore di ricerca è poco coordinato con l’attuale struttura delle selezioni: i bandi articolano le classi di concorso secondo i settori cui fanno capo i diversi corsi di laurea, che hanno poco a che vedere con le aree scientifiche in cui si suddividono i corsi dottorali. Senza contare il limitato rilievo, nella valutazione dei titoli, che il dottorato riveste. La delega al governo per riorganizzare il sistema di reclutamento nelle scuole dovrà dunque affrontare il problema di come valorizzare il titolo nel futuro percorso, caratterizzato da un corso di laurea abilitante e dal successivo tirocinio negli istituti.

Più dinamica è la situazione dell’inserimento dei “PhD” nell’industria privata. Oggi la normativa offre diversi strumenti per promuovere l’utilizzo dei giovani scienziati: sgravi fiscali per le aziende che investono in ricerca e assunzioni di personale di alta qualificazione; canali specifici per alternare studi e lavoro negli atenei e nell’impresa, come il dottorato industriale e l’apprendistato di alta formazione. L’impegno maggiore richiesto in questo contesto è quello di una maggior promozione del valore aggiunto che un ricercatore può conferire a un’azienda, mentre spesso i neodottori di ricerca sono visti dall’industria come portatori di un sapere troppo slegato dalle specifiche esigenze produttive.

Infine, la pubblica amministrazione. Qui, come nel mondo della scuola, manca una normativa che metta adeguatamente in luce il valore del titolo dottorale: nei concorsi pubblici (a differenza di quanto avviene con la laurea triennale o magistrale) il dottorato non è un requisito che garantisca un inquadramento uniforme dei vincitori, dal momento che ogni bando può assegnare al titolo un numero di punti del tutto variabile e discrezionale. Anche in questo caso, le speranze sono legate alle riforme in fieri: la legge 124 del 2015 prevede che il riordino delle leggi sul lavoro pubblico, da attuarsi ancora tramite delega al governo, si fondi anche sulla “valorizzazione del titolo di dottore di ricerca”: un principio che era già contenuto in due leggi precedenti che risalgono alla fine degli anni Novanta. Si riuscirà, stavolta, ad andare oltre le buone intenzioni?

Martino Periti

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