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Il dottorato in Italia, salari bassi e salute mentale a rischio

Il dottorato è il più alto titolo di studio conseguibile in Italia. Sebbene il possesso di un titolo di studio non sia necessariamente sinonimo di maggiore preparazione, in moltissimi casi coloro che possiedono un dottorato rappresentano le figure professionali più preparate all’interno del proprio ambito di studio e ricerca. Eppure, le condizioni economiche, professionali e di generale benessere delle giovani generazioni che compongono la popolazione accademica italiana è a dir poco disastrosa.

A restituire un quadro complessivo delle condizioni di vita di dottorandi e ricercatori all’inizio della carriera è l’undicesimo rapporto redatto dall’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia (ADI), significativamente intitolatoPsicopatologia del dottorato di ricerca”. il rapporto è frutto dell’analisi dei dati raccolti nell’indagine condotta annualmente dall’Associazione su scala nazionale, nella quale i rispondenti condividono le proprie abitudini di vita e lavoro, le proprie condizioni economiche e una valutazione complessiva del loro benessere.

All’indagine relativa al 2023 hanno partecipato più di 7000 persone iscritte a un dottorato (un sesto della popolazione totale), di cui circa la metà appartenenti a tre importanti città universitarie italiane: Padova, Roma e Milano, ognuna rappresentata da circa 500 risposte. 

A discapito di alcuni miglioramenti, che vanno certamente riconosciuti, come il recente aumento delle borse di dottorato (pari a circa 65€ mensili, comunque non sufficienti a coprire gli aumenti legati all'inflazione e il caro-affitti), le dimensioni in cui si riscontrano criticità sono numerose. La situazione economica di chi svolge il dottorato di ricerca in Italia resta precaria e impedisce alla maggioranza della popolazione dottorale di mettere da parte qualche risparmio o potersi permettere una spesa imprevista. Particolarmente preoccupanti sono poi gli indicatori relativi al benessere psicologico, su cui incidono sia i salari insufficienti, sia le condizioni di lavoro spesso al limite del burn-out e un forte senso di incertezza verso il futuro. Metà dei dottorandi e delle dottorande ha punteggi di depressione, ansia e stress che potrebbero risultare rilevanti a livello clinico, con una prevalenza nettamente superiore non solo alla popolazione italiana nel suo insieme, ma anche a chi fa un dottorato in altri Paesi occidentali.

Per approfondire alcuni dei principali risultati emersi dall'indagine abbiamo intervistato Federico Chiariotti, direttore del Servizio studi e ricerche di ADI. "Quello della salute mentale è un problema che si registra anche a livello internazionale, come è stato sottolineato anche da un sondaggio pubblicato periodicamente sulla rivista Nature. Abbiamo però scoperto che in Italia ci sono dei fattori specifici che rendono la situazione ancora peggiore", spiega Chiariotti a Il Bo Live. "Una recente meta-analisi di questi studi internazionali mostra che, tra la popolazione dottorale, circa una persona su quattro soffre di depressione e una persona su sei di problemi di ansia. In Italia siamo a uno su quattro con problemi di ansia e uno su tre con punteggi gravi o estremamente gravi su una scala scientificamente validata per la depressione".

A caratterizzare, in negativo, la condizione di chi intraprende il dottorato di ricerca nel nostro Paese sono certamente fattori economici ("in Paesi analoghi come Francia e Germania l'importo medio delle borse di dottorato è tra il 20% e il 30% più alto; se parliamo di Paesi come Danimarca, Olanda e Spagna le borse, rapportate al costo della vita, sono di importo ancora più alto rispetto all'Italia") ma ad essere ancor più penalizzante, spiega Chiariotti, è la mancata contrattualizzazione del dottorato e la conseguente assenza di diritti codificati. 

Intervista, riprese e montaggio di Barbara Paknazar

De-professionalizzazione e mancato riconoscimento economico

Uno dei più annosi problemi riguardanti le prime fasi della carriera accademica in Italia è l’inquadramento contrattuale dei dottorandi. Come evidenzia il rapporto dell’ADI, infatti, il fatto che il dottorato sia considerato – sia dal punto di vista amministrativo che, come vedremo, per quanto riguarda la gestione ordinaria del carico di lavoro – un prolungamento del percorso di studio piuttosto che come un periodo di formazione-lavoro «rappresenta una rarità nel contesto europeo». Questa interpretazione così atipica del ruolo del dottorando – il cui percorso è considerato «esclusivamente come formazione ai fini fiscali e come lavoro per quanto riguarda le mansioni» - ha moltissimi risvolti negativi.

Primo fra tutti, la questione economica: come emerge dai dati raccolti da ADI, la borsa di dottorato (il cui minimo è attualmente fissato a 1195€ netti mensili) è nettamente inferiore al salario a cui, in media, può accedere, con un lavoro a tempo pieno, un laureato magistrale a un anno dal conseguimento del titolo (1499€). Questo stipendio, ‘immune’ all’adeguamento dei salari in base all’inflazione, ha subìto una riduzione del potere d’acquisto circa del 10% negli ultimi tre anni. A questa contingenza si è aggiunta, di recente, la crisi abitativa che, a partire dalla fine del 2022, ha portato a un netto aumento del costo degli affitti soprattutto nelle città universitarie, pesando dunque in modo particolare sulla popolazione studentesca e dottorale. Come si legge nel rapporto, «in 24 città su 40, che ospitano l’80,2% del totale dei posti di dottorato in Italia, l’affitto di un monolocale in centro è superiore al 30% della borsa anche dopo l’aumento a 1.195€ al mese». Questo ha conseguenze dirette sulla qualità di vita dei dottorandi, che si trovano nella condizione obbligata di condurre uno stile di vita ‘studentesco’ e non hanno la possibilità di pianificare la propria vita personale e affettiva nel breve o medio termine, prolungando così la propria dipendenza dalla famiglia d’origine.

"Negli ultimi 18 mesi gli affitti nelle principali città universitarie sono cresciuti tra il 15% e il 20% e attualmente oltre il 60% dei posti di dottorato in Italia è in città dove con la borsa di dottorato ministeriale non è economicamente possibile permettersi un monolocale. Il solo impatto dell'affitto, senza considerare le bollette e le altre spese, è oltre un terzo dell'importo della borsa di dottorato", osserva Federico Chiariotti. In termini reali, nonostante ci siano stati due aumenti delle borse di dottorato (uno nel 2018 e uno nel 2023), il potere d'acquisto di una persona che percepisce questo salario è calato del 10% rispetto al 2008, quando la borsa di dottorato era pari a 1000 euro.

Tale precarietà economica è accentuata dal fatto che la maggior parte dei giovani ricercatori in formazione non riesce, per via della difficoltà di far fronte ai costi della vita ordinaria, a creare una base di risparmio adeguata anche per far fronte ad eventuali spese impreviste.

"Ad oggi i circa 1200 euro della borsa di dottorato valgono meno rispetto a quanto valessero 1000 euro nel 2008 e tra le persone che hanno risposto al nostro questionario solo uno su quattro potrebbe permettersi una spesa imprevista di 800 euro. Quest'ultimo è uno dei criteri considerato dall'Eurostat come uno dei parametri con cui viene definita la soglia di povertà e il fatto che tre dottorandi e dottorande su quattro non ci arrivino è sicuramente un grave problema", aggiunge il direttore del Servizio studi e ricerche dell'Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia. 

Inoltre il 52% del campione, in aumento rispetto al 45% dell’anno scorso, non riuscirebbe a sostenere neanche una spesa imprevista di importo inferiore, pari a 400 euro, relativamente comune per spese mediche o l’acquisto di un nuovo telefono cellulare o un computer di fascia media. 

Troppo lavoro

Dall’inquadramento del dottorato come semplice percorso di formazione scaturisce la mancanza di qualsiasi tutela contrattuale, e la conseguente esposizione della categoria «all’arbitrio di supervisor, collegio docenti e uffici amministrativi, sia per quanto riguarda i diritti ordinari come ferie, malattia o maternità, sia in situazioni più complesse che travalicano l’ordinario sfruttamento». Nel sottoporre ai dottorandi il proprio questionario, ADI ha chiesto di effettuare una valutazione della qualità del proprio ambiente di lavoro. Dall’analisi dei risultati, emerge che molti subiscono la pressione per l’aumento degli output quantitativi del proprio lavoro (tipicamente valutato in base al numero delle pubblicazioni). In linea con questa tendenza, si registra che «più di un quarto del campione riporta un clima che normalizza e incoraggia lo stacanovismo accademico a livelli preoccupanti: il punteggio medio è 12,9 [su una scala da 0 a 20, dove valori inferiori indicano una valutazione positiva] e solo il 19,8% riporta punteggi pari o inferiori a 8, mentre i punteggi tra 13 e 20 sono il 56,8%». Altrettanto preoccupante è il carico di lavoro in termini di numero di ore lavorate settimanalmente: il 51,4% del campione riporta di lavorare più di 40 ore a settimana, mentre l’11,9% supera addirittura le 50 ore.

Anche in questo caso, così come si rileva per le sofferenze economiche, vi è una disparità legata al genere di appartenenza, al settore disciplinare (le discipline umanistiche sono tendenzialmente penalizzate) e alla regione geografica di provenienza e/o di svolgimento del percorso dottorale. Vi è inoltre una correlazione diretta tra la qualità percepita del proprio ambiente di lavoro e la quantità di ore di lavoro settimanali, dato che evidenzia come i giudizi individuali siano generalmente supportati anche da evidenze fattuali relative all’organizzazione del lavoro accademico, e non solo da impressioni soggettive.

Precariato e precarietà

Un altro tema centrale riguarda le prospettive di carriera future. Sebbene la questione della cosiddetta ‘fuga dei cervelli’ sia un tema che ciclicamente torna al centro del dibattito pubblico, poche sono le misure effettivamente implementate per fermare – o almeno tentare di farlo – questa emorragia. Ad oggi, infatti, molti di coloro che si avvicinano alla fine del percorso di dottorato ritengono che emigrare sia una scelta plausibile, in alcuni casi quasi obbligata. In risposta alla domanda “Quanto ritieni probabile che tu viva e lavori in Italia 5 anni dopo il dottorato?”, il 48,4% del campione ritiene che questo sia estremamente probabile, mentre un buon 21% crede che questa ipotesi sia altamente improbabile. Rimanendo nel contesto in Italia, infatti, le prospettive di carriera sono percepite come a dir poco incerte: comparando le intenzioni di lavorare in accademia all’inizio, durante e alla fine del triennio di dottorato, infatti, i giovani ricercatori riportano un progressivo ridimensionamento della propria visione iniziale: «l’ambizione di rimanere nel mondo accademico [è] diminuita nel corso di dottorato per il 78,5% del campione, mentre [è] aumentata leggermente solo per il 6,2%».

A pesare sull’incertezza per il futuro è non soltanto la consapevolezza dei magri finanziamenti dedicati all’ambito della ricerca universitaria, ma anche la «complessità delle forme di contratto precario variegate e stratificate» e, non ultima, la mancanza di una chiara e completa informazione sui meccanismi del mondo del lavoro accademico relativi al periodo post-dottorato.

Salute mentale: una crisi annunciata

I dati più preoccupanti che emergono dall’indagine annuale riguardano tuttavia la salute mentale, che risente delle storture evidenziate dalle risposte raccolte. Attraverso l’analisi delle risposte a un questionario standardizzato per la misura dei tassi di stress, ansia e depressione, è emerso che nella popolazione dottorale si riscontrano livelli non dissimili da quelli misurati in un campione clinico, pur con una grande varietà all’interno della popolazione. Il 26,5% dei rispondenti riporta valori corrispondenti ad ansia grave o molto grave: seppur al di sotto della soglia che potrebbe richiedere interventi ospedalieri, si tratta di «una proporzione significativamente più alta del valore internazionale».

La situazione peggiora se si esamina la depressione: in questo caso, il 37,5% del campione di dottorandi italiani presenta punteggi corrispondenti a una situazione grave o estremamente grave, con valori molto peggiori rispetto sia alla popolazione generale italiana, sia agli omologhi internazionali.

Infine, il 36,9% degli intervistati ha una situazione grave o molto grave per quanto riguarda i livelli di stress: «Rispetto alla misura dello stress – si commenta nel rapporto – il valore medio nel dottorato raggiunge o supera quello di una popolazione ospedalizzata per disturbi di ansia e depressione».

Se si guarda ai dati aggregati per questi tre disturbi legati alla salute mentale, il 52,4% non riporta valori preoccupanti per nessuno dei tre, ma ben il 18,9% presenta punteggi superiore alla soglia in tutti e tre i disturbi. La presenza di punteggi gravi è correlata all’esperienza di difficoltà economiche, alla precarietà lavorativa e all’incertezza per il futuro, alla sofferenza legata ad un ambiente di lavoro malsano, ad orari di lavoro troppo estesi e a un clima poco collaborativo, e certamente anche all’appartenenza di genere o a minoranze. "Le donne hanno una prevalenza nettamente più alta su tutti gli assi (depressione, ansia e stress) che abbiamo misurato e tendenziamente fanno anche più ore di lavoro", spiega Chiariotti. 

Le proposte di ADI per migliorare la situazione di dottorande e dottorandi

La natura atipica del dottorato, considerato esclusivamente come formazione ai fini fiscali e come lavoro per quanto riguarda le mansioni, non consente alcuna pianificazione a lungo termine: l’accesso al mutuo o anche soltanto la deduzione di spese mediche e per l’abitazione sono impossibili con una borsa di dottorato. Parallelamente l’assenza totale di garanzie e benefici, sia sul piano strettamente salariale che su quello previdenziale, non è distinta da condizioni lavorative variegate e talvolta arbitrarie, il cui peso è aggravato dall'incertezza totale verso il futuro. 

"La proposta storica è rendere il dottorato un vero e proprio lavoro, come accade nella maggioranza del Paesi europei. Questo significherebbe codificare diritti che al momento sono negati o dipendono dalla benevolenza del supervisor o del collegio dei docenti". Per quanto riguarda poi l'aspetto economico "il fatto che l'importo, rapportato al costo della vita, sia addirittura calato rispetto a 10-15 anni fa andrebbe assolutamete risolto", conclude Federico Chiariotti.

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